mercoledì 29 febbraio 2012

FILOSOFANDO

Aristotele

 

Aristotele inizia la sua carriera di filosofo criticando la teoria delle idee di Platone. Naturalmente tale dottrina era discussa a fondo dal maestro e tra i discepoli, però Aristotele si distingue subito per averne affermata radicalmente l'inutilità. La teoria delle Idee, secondo Aristotele, complica inutilmente la spiegazione della realtà: le idee sono più numerose degli individui (se diciamo ad esempio che l'uomo è un animale razionale, troviamo in ogni individuo già almeno tre Idee, quella di uomo, di animale, e di razionale). Se poi si dice che gli individui sono simili all'Idea, si deve riconoscere che questo singolo uomo e l'Idea (di Uomo in sé) non sono simili di per sé (infatti l'individuo non possiede certo l'universalità dell'Idea, è un uomo in particolare e non l'Uomo in sé); devono allora essere simili in virtù di un terzo uomo che, sia simile da un lato all'Idea e dall'altro all'individuo; ma per poter far ciò, il terzo uomo ne esige un quarto, e questo un quinto e così via all'infinito. Insomma, il solco tra le Idee e gli individui si rivela incolmabile. Per sanare il radicale dualismo platonico bisogna dichiarare che reali sono proprio gli individui (ecco la trovata di Aristotele!): è nelle cose visibili che va cercata la causa stessa della realtà, degli individui, del loro divenire. Con l'abbandono del platonismo, Aristotele si dedica ad una sistematizzazione del sapere talmente profonda che egli sarà il culmine del pensiero greco antico. Non solo: le sue idee influenzeranno il mondo occidentale per molti secoli per cui non c'è branca del sapere che non abbia risentito dell'impronta, diretta o indiretta di Aristotele.

Aristotele divide le scienze in tre gruppi: le scienze teoretiche (la filosofia prima o metafisica, la fisica e la matematica), le quali ricercano la conoscenza disinteressata della realtà e si occupano dell'essere necessario (Dio, mondo, numero), mentre le altre si occuperanno dell'essere possibile (ogni altra cosa che esiste); le scienze pratiche, che comprendono l'etica e la politica, le quali ricercano il sapere per raggiungere la perfezione morale e sono di guida alla condotta umana; e infine le scienze poietiche o produttive (le arti e le tecniche), che ricercano il sapere in vista del fare, per produrre i vari oggetti.



Metafisica
La scienza più alta è per Aristotele la metafisica (che in realtà lui chiamava filosofia prima e, più tardi, verrà anche detta ontologia, cioè studio dell'essere), la quale viene da lui definita in quattro modi: essa è la scienza che studia le cause e i principi primi, studia l'essere in quanto essere; studia la sostanza; studia Dio e la sostanza immobile. Dire che la metafisica studia l'essere in quanto essere significa che essa non ha per oggetto una realtà in particolare, bensì la realtà in generale, cioè gli aspetti fondamentali e comuni di tutta al realtà. In altri termini, la matematica studia l'essere come quantità, la fisica studia l'essere come movimento, solo la metafisica studia l'essere in quanto tale, considerando le caratteristiche universali di ogni essere (ecco perché è chiamata "filosofia prima" mentre la altre scienze sono "filosofie seconde"), ed è dunque il presupposto indispensabile di ogni ricerca.

Se la metafisica è lo studio dell'essere, che cosa è l'essere? Aristotele dice che l'essere ha molteplici aspetti e significati (noi diciamo ad esempio che l'uomo è, la neve è sui monti, Dio è...). Esso viene perciò diviso da Aristotele in quattro gruppi principali: l'essere come categoria; l'essere come potenza e atto; l'essere come accidente; l'essere come vero (e il non essere come falso). Noi vedremo brevemente i primi tre aspetti.

Col termine "categorie" Aristotele intende le caratteristiche fondamentali che ogni essere possiede. Esse sono dieci: sostanza, qualità, quantità, relazione, agire, subire, dove (luogo), quando (tempo), avere e giacere. La prima di esse, la sostanza, è la più importante perché è il riferimento comune alle altre categorie che, in qualche modo, la presuppongono (la qualità ecc. è sempre riferita a qualcosa che esiste di già: l'uomo, ovvero la sostanza, è alto, uno, padre, cammina ecc.). Il che ci porta a concludere che, se l'essere si identifica con le sue categorie e le categorie si riferiscono alla sostanza, la domanda su "che cos'è l'essere ?" si trasforma in "che cos'è la sostanza?".

La sostanza è in primo luogo ogni individuo concreto (uomo, cavallo, albero, tavolo ecc.) a cui si riferiscono delle proprietà che lo caratterizzano. E' quindi un sinolo, unione di due elementi che Aristotele chiama materia (hyle) e forma (eidos, morphé). La forma è la "natura" propria di una cosa, è ciò che la rende quella che è e la distingue dalle altre; è dunque la sua "essenza", il suo significato fondamentale, il suo "essere dell'essere". La materia è invece ciò di cui una cosa è fatta, ciò di cui è composta (ad esempio un uomo è fatto di carne ed ossa; una sfera è fatta di bronzo ecc.), ed è dunque un elemento passivo, che viene 'strutturato', dalla forma, nel senso che è la forma che rende ad esempio l’uomo 'animale razionale', mentre la materia sarà il corpo dell'uomo. Entrambe però, la materia e la forma, sono necessarie per fare una sostanza: non può esistere un uomo senza il corpo (materia), né l'anima (forma) senza il corpo.

Se la forma è l'essenza necessaria, da essa si distinguono gli accidenti, i quali sono le varie qualità che si possono avere o non avere senza per questo influire sulla sostanza stessa. Ad esempio Socrate non cessa di essere uomo mentre può essere allegro, triste, sano, malato, ecc. Per cui mentre l'accidente cambia nel tempo, la sostanza rimane la stessa, identica, pur nel mutare delle varie qualità.

Se la forma è l'essenza necessaria, è ciò per cui ogni essere è necessariamente quello che è, allora essa è anche la risposta che possiamo dare circa il che cos'è? di una cosa, in quanto definire un essere vuol dire chiarirne l'essenza (che cos'è questo? è un uomo; cos'è un uomo? un animale razionale). Questo ci porta a fare un breve excursus in ambito logico per accennare al principio di non contraddizione (lo vedremo meglio più avanti): esso sostiene che ogni essere ha una natura determinata che è impossibile negare di esso e quindi, in questo senso, gli è necessaria, non potendo essere diversa da quello che è. E' espresso da Aristotele nel modo seguente : "è impossibile che la stessa cosa sia e insieme non sia". Il che viene dimostrato da Aristotele per assurdo dicendo che, se una parola ha un significato, non è possibile che A sia insieme B e non-B, cioè ad esempio che 'uomo' sia insieme 'animale razionale' e 'non animale razionale'. Ne riparleremo tra qualche pagina.

Tornando alla sostanza, possiamo notare che praticamente ogni cosa è una sostanza, in quanto di ogni cosa - da Dio al più piccolo sasso - si può sempre e comunque chiedere che cos'è?. Ciò significa che tutti gli esseri, prima di qualunque altro valore, hanno questo che li accomuna: il fatto di essere delle sostanze. Il che implica che, per Aristotele, tutte le scienze, in quanto sono tutte rivolte alla ricerca e alla definizione delle sostanze, abbiano la stessa dignità. Con questa idea Aristotele ha ulteriormente abbandonato il Platonismo, giacché per Platone valeva la pena di indagare solo ciò che era ottimo e perfetto e le scienze della natura non erano in fondo delle 'scienze' ma solo delle opinioni probabili. Per Aristotele invece ogni scienza ha valore di per sé. Egli ha quindi giustificato il valore della ricerca scientifica nel suo senso più ampio (ed ecco perché si è occupato di ogni ramo dello scibile) ed ha eliminato il pregiudizio platonico contro l'indagine della natura.

Aristotele afferma, come già
Platone, che la conoscenza nasce dalla meraviglia nei confronti della realtà e consiste nel chiedersi il perché delle cose. Ma chiedersi perché una cosa esista o perché sia così e non altrimenti, equivale a chiedersi qual è la causa (= condizione, fondamento, ragione) della cosa stessa, e quindi vi potranno essere diversi tipi di cause. Aristotele elenca quattro cause: materiale, formale, efficiente, finale.

La causa materiale è appunto la materia, ciò di cui una cosa è fatta (il bronzo è la cosa materiale della statua). La causa formale è la forma o essenza della cosa (la 'ragione' è la forma o essenza dell'uomo). la causa efficiente è ciò che dà origine, inizio a qualcosa (il padre è la causa efficiente del figlio). La causa finale è il fine, lo scopo a cui una cosa tende (il diventare adulto è la causa finale del bambino). La teoria delle cause è legata al problema del mutamento o, meglio, del divenire. Che vi siano delle cose che mutano è una esperienza quotidiana. Ma come poter definire il divenire il generale? Per Aristotele il divenire è il passaggio da un tipo di essere ad un altro. In breve, l'unica realtà è l'essere, ed il divenire è soltanto uno dei modi dell'essere. Approfondendo la questione Aristotele elabora i concetti di essere in potenza e di essere in atto. La potenza (dynamis) è in generale la possibilità, da parte di qualcosa, di cambiare, assumere dunque una certa 'forma'. L'atto (energheia) è la realizzazione di quel cambiamento, è la cosa esistente che si ottiene in seguito al cambiamento. Ad esempio un pulcino è in potenza un gallo, come il gallo è il pulcino in atto (l'atto viene anche chiamato entelecheia, cioè realizzazione o perfezione attuata). L'atto è per Aristotele superiore alla potenza poiché è la causa, il senso, il fine di ciò che è in potenza. Alla domanda se è nato prima l'uovo o la gallina, Aristotele risponderebbe 'la gallina', proprio perché la gallina è la realizzazione compiuta di ciò che è solo in potenza, che potrebbe avvenire ma non è ancora, mentre solo ciò che è in atto ci permette di conoscere quello che è in potenza.

Non ci rimane che illustrare la metafisica come 'studio di Dio'.

Sviluppando un argomento già presente negli ultimi dialoghi platonici, Aristotele sostiene che la materia non può avere in se stessa la causa del proprio movimento. Dunque tutto ciò che si muove, è necessariamente messo in moto da qualcos'altro. Questo qualcos'altro, poi, se è anch'esso in movimento, è mosso da altro ancora (come la pietra è mossa dal bastone, che è mosso dalla mano, che è mossa dall'uomo). Orbene, in questo processo di rimandi non si può procedere all'infinito perché altrimenti rimarrebbe inspiegato il movimento iniziale, dalla cui constatazione siamo partiti. Non potendo così andare all'infinito, vi devono essere dei principi, ovvero dei motori immobili a cui fanno capo i vari movimenti e, a maggior ragione, vi deve essere un principio primo e immobile, un Primo Motore Immobile, a cui fa capo tutto il movimento. Per Aristotele questo Motore Immobile è Dio stesso, a cui il filosofo attribuisce anche altre caratteristiche. Prima di tutto Dio deve essere un atto puro, cioè un atto senza potenza, giacché la potenza è la possibilità di cambiamento mentre Dio, se è Motore Immobile, non può essere sottoposto al mutamento. Inoltre Dio deve anche essere forma pura o sostanza incorporea perché è appunto privo di materia.

Alla domanda: come può il Primo Motore muovere restando immobile? Aristotele dice che esso non muove come una causa efficiente, dando un impulso, ma muove come causa finale, cioè come 'un oggetto d'amore'. In altre parole, il Primo Motore muove come l'oggetto d'amore attrae l'amante, pur restando immobile. Dio è la Perfezione che, come una calamita, attira e quindi muove il mondo. Di conseguenza, l'universo è una sorta di sforzo della materia verso Dio e quindi, in pratica, un desiderio incessante di prendere 'forma', Non è tanto Dio che dà forma al mondo, ma è piuttosto il mondo che, aspirando a Dio, si auto-ordina (non si dimentichi che per i Greci l'universo non è creato, non ha avuto origine, sussiste da sempre).

Un'altra caratteristica del Dio aristotelico è che è vivente. Ma di quale tipo di vita? Quella che per Aristotele è la più perfetta, quella che all'uomo è possibile solo per breve tempo, e cioè la vita del puro pensiero, della contemplazione (theoria). E che cosa contempla Dio? Non può che contemplare la cosa più perfetta e quindi... contempla se stesso: egli pensa se stesso, è 'pensiero di pensiero'. Si noti che Dio non è però unico. Per i Greci era 'divino' tutto ciò a cui si può attribuire l'eternità e l'incorruttibilità, per cui sono divine molte cose, come le sostanze soprasensibili, l'anima razionale dell'uomo e anche i motori dei cieli. Aristotele pensava infatti che il cielo fosse in realtà costituito da moltissime (da 47 a 55) sfere celesti, ognuna delle quali veniva mossa da una intelligenza motrice, che era dunque divina, analoga al Primo Motore ma inferiore a lui, anzi inferiori le une alle altre, come sono gerarchicamente inferiori le sfere che, una dopo l'altra, sono tra le stelle fisse e la terra. E si ricordi, in ultimo, che il Dio di Aristotele non è né creatore e né provvidenza. Esso non crea il mondo dal nulla (questa è una concezione ebraico-cristiana) visto che il mondo è eterno; non conosce e non ama il mondo giacché l'amore è visto come una imperfezione, in quanto è la tendenza a ricercare ciò di cui abbiamo bisogno (ricordate Platone?) mentre, se Dio è perfetto, non può avere bisogno di nulla e quindi non può amare. Il Dio di Aristotele è insomma una statica perfezione che si bea eternamente di se stessa.



Fisica
Com'era visto il mondo da Aristotele? Pensate che quanto egli sostenne rimarrà tale fino al 1600, quando
Galilei e altri daranno origine alla scienza moderna. Vi è, secondo Aristotele, il mondo celeste ed il mondo sublunare, in cui è situata la Terra. Le sostanze del mondo sublunare sono costituite da quattro elementi: aria, acqua, terra e fuoco. Ogni elemento si muove in una direzione determinata dal suo peso; ciascuno di essi ha quindi un luogo naturale a cui tende (per Aristotele non c'è il vuoto perché in uno spazio vuoto nulla offrirebbe resistenza e quindi non ci sarebbe differenza di velocità tra corpi pesanti e corpi leggeri). La terra, in quanto corpo più pesante, occupa il centro dell'universo, Al di sopra della Terra vi sono la Luna, il Sole, i pianeti e le stelle. I corpi celesti sono legati ad una serie di sfere concentriche, che si muovono in cerchio (perché è il moto perfetto) intorno alla Terra. Il movimento circolare è eterno, così come è eterno il mondo nel suo complesso ed eterne le specie animali e vegetali che lo popolano (bisognerà aspettare Darwin per contestare questo aspetto). Il moto circolare è proprio delle sostanze incorruttibili ossia dei corpi celesti. Essi sono composti da una quinta essenza o etere. I processi di generazione e corruzione sono propri solo delle singole sostanze del mondo sublunare.

Nel mondo sublunare vi sono molte specie viventi. Non ogni corpo ha naturalmente la vita: basti pensare alle pietre o ai metalli. Solo un corpo organico, ossia un corpo dotato di strumenti in grado di svolgere certe funzioni, può avere la vita in potenza. L'anima, secondo Aristotele, non può esistere indipendentemente dal corpo: essa è l'atto perfetto o entelecheia di un corpo che ha la vita in potenza; mentre il corpo è la 'materia' di quel sinolo (composto) che è l'essere vivente. L'anima ha diverse funzioni: quella nutritiva e riproduttiva (che è anche comune a piante ed animali), quella sensitiva (propria solo degli animali e degli uomini : si ricordi che per Aristotele è il cuore e non il cervello il centro delle funzioni percettive e fisiologiche), e infine quella intellettiva, propria solo dell'uomo, che è un intelletto che non ha bisogno di un supporto corporeo per svolgere il suo compito (ad esempio giudicare il vero dal falso, ciò che è da desiderare o da fuggire ecc.). L'intelletto è in potenza e diventa in atto quando conosce. Mentre l'anima individuale umana non è immortale (l'abbiamo visto prima dicendo che è legata al corpo), l'intelletto produttivo (poietikos) è sempre in atto ed è impassibile, separabile e quindi immortale. Aristotele dice che è divino e proviene all'uomo dall'esterno. Il che procurerà diversi fastidi ai commentatori posteriori di Aristotele che cercheranno di risolvere in qualche modo la posizione non ben chiara del maestro.



Etica
Passiamo ora all'etica aristotelica. Se fino a Platone l'etica non aveva alcuna autonomia rispetto alla filosofia, con Aristotele questa autonomia è riconosciuta alla cosiddetta 'filosofia pratica', che comprende però, insieme, sia etica che politica o, meglio, l'etica è vista come politica nella misura in cui essa può ispirare una legislazione adeguata per promuovere la felicità collettiva e dunque anche individuale. Aristotele riconosce però subito che il campo del bene e del giusto su cui indaga il sapere etico-politico presenta un tale grado di variabilità e instabilità da non consentire altro approccio alla verità se non per approssimazione. D'altra parte, dice Aristotele, quel che vogliamo acquisire in un trattato di etica come l'Etica nicomachea (ovvero Etica a Nicomaco, dedicata al figlio di Aristotele che aveva preso il nome dal nonno) non è tanto la conoscenza 'teorica' della virtù, quanto uno strumento per diventare 'uomini buoni e felici'.

E appunto nella felicità consiste il bene più alto per Aristotele Il bene non è più, come in Platone, l'Idea o la realtà più alta, ma, molto più concretamente, "ciò a cui ogni cosa tende". Da questo punto di vista, vi è una molteplicità di fini e quindi di beni, anche se vi è una gerarchia di desiderabilità tra tutti i beni. La felicità comprende molte cose: una buona vita, una attività coronata da successo, un gruppo di amici con cui condividere le esperienze, il possesso di un minimo di beni, insomma oggi diremmo una 'esistenza realizzata'. Non per nulla il termine greco per 'felicità' è eudaimonia, che vuol dire letteralmente essere accompagnati 'da un buon demone', quindi da una sorte propizia.

Aristotele si riferisce comunque ad una felicità esclusivamente umana e, del resto, per lui non è neppure concepibile una felicità ad esempio degli animali; non solo, ma per Aristotele l'uomo potenzialmente felice è il membro giusto, agiato, della polis, per cui ne sono esclusi schiavi, artigiani ecc. Comunque Aristotele riconosce la fragilità della felicità concessa agli uomini: il virtuoso sarà però capace di fronteggiare con serenità le varie vicissitudini della sorte (tyché).

Ma come si diventa 'giusti'? Non certo attraverso un insegnamento teorico. La via maestra per la virtù è l'abitudine alla condotta virtuosa (si noti in greco il nesso linguistico tra ethos, carattere, ed ethos, abitudine). In altri termini, si diventa giusti abituandosi a compiere azioni giuste. La formazione morale si attua cioè attraverso l'abitudine e finisce per consolidarsi in una sorta di 'seconda natura' del soggetto.

Il criterio effettivo a cui paragonare il nostro comportamento non è, per Aristotele il riferimento ad un bene più o meno astratto, ma è costituito dal comportamento effettivo di una figura socialmente riconoscibile e approvata per la sua conformità ai modelli morali condivisi: è insomma l'uomo che è serio e virtuoso, lo spoudaios, che costituisce 'il canone e la misura' del comportamento morale. Aristotele nomina esplicitamente, a questo riguardo, Pericle e i suoi simili, come rappresentanti del 'perfetto gentiluomo ateniese'. Detto in breve: vuoi essere virtuoso? Comportati come fa Pericle.

Però se lo spoudaios funge da criterio di virtù, è perché egli ha scelto di vivere secondo virtù, cioè ha ritenuto che fosse meglio vivere virtuosamente invece che malvagiamente. Il che ci porta ad affrontare il tema della libertà, che è tutt'altro che semplice nel pensiero aristotelico. In primo luogo si noti che il termine greco che viene generalmente tradotto con 'libertà' è eleutheria, che designa non tanto la libertà 'psicologica' quanto la condizione giuridica dell'uomo libero, in contrapposizione allo schiavo. Né lui né nella lingua del suo tempo vi è qualcosa di simile al nostro libero arbitrio. Egli dice che un'azione è libera quando "dipende dall'uomo stesso". Ma il senso esatto di questo autòs si riferisce all'individuo umano preso nel suo complesso, concepito come l'insieme delle disposizioni che formano il suo carattere particolare, il suo ethos. Il carattere di ogni uomo si fonda su una somma di disposizioni (héxeis) che si sviluppano attraverso la pratica e si fissano in abitudini. Una volta formato il carattere, dice Aristotele, il soggetto agisce in conformità a queste disposizioni, e non potrebbe essere altrimenti. Ora, è vero - ammette Aristotele- che chi ha acquisito una abitudine, ad esempio l'ingiustizia, non può tornare indietro (si pensi oggi ai drogati, ai delinquenti ecc.), ma "all'inizio gli era possibile non diventare ingiusto", e quindi lo è diventato volontariamente, trasgredendo il 'condizionamento virtuoso' operato dal padre, dalla polis, dalla legge. Inoltre Aristotele è convinto che né la spinta della passione (al contrario di quanto sostenevano i tragici del pensiero arcaico) né l'attrazione del piacevole esercitano su di noi una vera e propria costrizione: resta sempre in noi la possibilità di resistere, di esercitare quel potere interiore (enkrateia) che distingue il virtuoso dall'intemperante. In altri termini, per Aristotele le passioni non costituiscono in loro stesse il male morale: occorre solo incanalare le passioni quando e come si deve, verso chi e per il fine che si deve, seguendo la regola della medietà. La virtù consiste infatti nella medietà, cioè nella scelta della vita intermedia fra i due opposti errori dell'eccesso e del difetto passionale. Non vi è però una sola virtù ma diverse. Come suo solito, molto concretamente, Aristotele ritiene che vi siano due tipi fondamentali di virtù, quelle etiche e quelle dianoetiche, a seconda che si riferiscano rispettivamente alle nostre attività pratiche o a quelle intellettuali. Le prime sono il coraggio, la temperanza, la generosità o liberalità, la magnanimità e la mansuetudine; le seconde comprendono la scienza, l'arte, la saggezza, l'intelligenza, la sapienza. Vediamole più in dettaglio.

Il coraggio (riguarda ciò che si deve o no temere) è il giusto mezzo tra la viltà e la temerarietà. La temperanza (riguarda l'uso moderato dei piaceri) è il giusto mezzo tra intemperanza e insensibilità. La generosità o liberalità (uso accorto di ciò che si possiede) è il giusto mezzo tra l'avarizia e la prodigalità. La magnanimità (concerne la retta opinione di se stesso) è il giusto mezzo fra la vanità e la piccineria d'animo. Infine la mansuetudine (concerne l'ira) è il giusto mezzo tra irascibilità e indolenza.

A parte vi è la giustizia che è, per Aristotele, la virtù per eccellenza. La 'giustizia' implica il concetto di ordine e di equilibrio: ordine e misura sia in sé che nel rapporto con gli altri, così che ciascuno possa liberamente attuare se stesso in una armonia superiore. In questo senso giustizia-libertà-morale coincidono.

A parte ancora vi è pure l'amicizia (philia) a cui Aristotele dedica due libri dell'Etica nicomachea (l'8° e il 9°). La felicità è perfetta se, oltre alla contemplazione, l'uomo possiede un certo numero di beni ed in più ha degli amici. L'amicizia è strettamente collegata alla virtù, ed è la cosa "più necessaria" alla vita. L'amicizia, quando è fondata appunto sul bene e sulla virtù, è perfetta, ed è quindi stabile e ferma. "L'uomo virtuoso si comporta verso l'amico come si comporta verso se stesso, perché l'amico è un altro se stesso" (Et. nic.,9,9,1170 b 5).

Le virtù dianoetiche sono la scienza, che è la capacità dimostrativa, ed ha per oggetto ciò che è necessario; l'arte, che è la capacità, accompagnata a ragione, di produrre un oggetto, ed ha sempre un fine fuori di sé; la saggezza (phronesis) è la capacità, congiunta a ragione, di agire in maniera conveniente sui beni umani; ad essa spetta di determinare il giusto mezzo in cui consistono le virtù morali; l'intelligenza è la capacità di cogliere i principi di tutte le scienze; la sapienza (sophia) è la più alta fra le virtù dianoetiche. Chi ha la sapienza ha scienza ed intelligenza; sa dedurre non solo i primi principi ma sa anche giudicare della verità degli stessi principi. La sapienza riguarda poi le cose più alte, il necessario e il divino, nei cui confronti un solo atteggiamento è possibile, quello della contemplazione (theoria), che è l'attività più alta perché, contemplando, l'uomo supera la stessa felicità umana (propria dell'esercizio delle virtù etiche) e partecipa della vita divina. Perciò, se la felicità maggiore consiste nella virtù più alta, e se la virtù più alta è la sapienza, l'uomo più felice sarà il sapiente e cioè il filosofo. E' lui l'unico vero makarios (beato, felice) su questa Terra, poiché la sua vita è fatta di serenità e di pace, dedito com'è alla contemplazione! Una tale virtù però non è pensabile al di fuori della vita associata. L'uomo non può fare a meno degli altri, per cui la felicità perfetta si attua nella vita comune, insieme agli altri, nella polis.

Logica
Si potrebbe dire ancora tantissimo su Aristotele. Non si può tralasciare la sua concezione della logica, che tanta influenza ebbe nei secoli a venire, fino ai nostri giorni (le logiche attuali sono nate in relazione all'assoluto predominio della logica aristotelica). Aristotele è dunque il creatore della cosiddetta logica formale, che è quella scienza che studia il ragionamento e ne elenca le forme corrette, indipendentemente dal loro contenuto, cioè dal riferimento al concreto.

In primo luogo Aristotele distingue tra ragionamenti veri e quelli probabili: i primi li chiama apodittici, analitici o scientifici; ai secondi dà il nome di dialettici. La 'dialettica' studierà quindi le regole generali della discussione e, in particolare, il campo delle opinioni dei più competenti. L'analitica (cioè la nostra logica) in senso stretto studierà invece il ragionamento scientifico o apodittico (= ciò che è evidente e non ha bisogno di dimostrazione), quel ragionamento, cioè, che muovendo da premesse rigorosamente vere, e cioè inconfutabili, ne deriva una conclusione necessaria.

Il sillogismo è appunto un tipo di ragionamento del genere. Esso si compone di tre giudizi, di cui i primi due sono detti premesse ed il terzo è la conclusione. Ad esempio "Tutti gli uomini sono mortali; Socrate è uomo; quindi Socrate è mortale". Si noti inoltre che nelle due premesse è inserito il cosiddetto termine medio, che consente l'affermazione della conclusione (in questo caso è 'uomo'), usandolo prima come soggetto e poi come predicato.

La teoria del sillogismo di Aristotele presenta anche le regole per dedurre in modo corretto una conclusione vera, date naturalmente certe premesse. Pensate che Aristotele classificò 19 modi validi (su 64 modi teoricamente possibili) di esprimere una proposizione qualunque, ai quali i logici medievali diedero delle sigle particolari per ricordarli più facilmente. Ad esempio ad una frase o proposizione 'universale affermativa' (="tutti gli uomini sono mortali") essi diedero la lettera A; ad una universale negativa, diedero la E; ad una particolare affermativa diedero la I e ad una particolare negativa attribuirono la lettera O. In più, per ricordare in sintesi che un sillogismo, ad esempio, era composto da tre frasi o proposizioni tutte universali affermative, i logici medievali inventarono delle parole come ad esempio BARBARA, che indica appunto un tale tipo di sillogismo (Se volete esercitarvi, provate a scoprire altri tipi di sillogismo scomponendo le seguenti parole: CELARENT, DARII, CESARE, CAMESTRES...).

Se è vero che, partendo da certe premesse si può arrivare a determinate conclusioni, è anche vero però che, alla base di ogni ragionamento vi sono alcuni principi intuitivamente veri o assiomi, che non possono a loro volta essere dimostrati, ma fondano la possibilità stessa di ogni dimostrazione. Tali sono i tre principi di identità, non contraddizione e del terzo escluso. Essi non sono appunto dimostrabili perché sono alla base di ogni dimostrazione; al massimo si possono illustrare e la loro dimostrazione è solo per assurdo o elenctica. Il principio di identità sostiene che A è uguale ad Aristotele Ciò è immediatamente evidente: ma se volessimo chiarirlo meglio, potremmo dire che è impossibile che A non sia A in quanto... si darebbero due significati diversi del termine, ovvero sarebbero vere sia l'affermazione che la negazione.

Il principio di non contraddizione viene espresso in diversi modi da Aristotele Una delle formulazioni è la seguente: "E' impossibile che la stessa cosa convenga e insieme non convenga ad una stessa cosa e per il medesimo rispetto" (Metaf., IV, 3, 1005 b). Ovvero: "E' impossibile che la stessa cosa sia e insieme non sia" (Ibid., IV, 4). Con un esempio: "E' impossibile che un uomo sia insieme animale bipede e non animale bipede". Tale principio è importantissimo per Aristotele perché, se lo si nega, ne segue che ogni affermazione può essere insieme vera e falsa, il che escluderebbe la possibilità di distinguere il vero dal falso, conducendo verso il relativismo e lo scetticismo. Contro un rischio così grave, Aristotele si impegna a fondo nell'affermare la validità del principio di non contraddizione. All'avversario del principio di non contraddizione, per confutarlo, Aristotele chiede di pronunciare una parola qualsiasi, basta che abbia un significato. Se rinuncia a parlare, rivela l'assurdità della sua posizione; ma se parla e dice qualcosa, ad esempio "sì", oppure "uomo" ecc., la negazione del principio di non contraddizione ne risulta confutata. Infatti, ammettendo che una parola significhi qualcosa, si esclude nello stesso tempo che una tale parola possa significare qualcos'altro: ad esempio dire "sì" equivale ad escludere il "no", come pure dire "uomo" vuol dire intendere "animale razionale" e non "animale irrazionale". In sintesi, se ogni parola ha un significato, è impossibile che A sia insieme B e non-B, cioè che 'uomo' sia insieme 'animale bipede' e 'non animale bipede'.

Infine, col principio del terzo escluso, Aristotele sostiene che "non è possibile che ci sia qualcosa di intermedio tra due enunciati contrari, bensì di un'unica cosa è necessario affermare o negare un unico predicato". Detto in altri termini, A è B oppure non è B, non c'è una terza possibilità. Insomma, ogni frase, ogni proposizione dotata di senso o è vera o è falsa. Date quindi due proposizioni contrarie, una di esse è necessariamente falsa. Tra due tesi che si escludono a vicenda, non è possibile enunciarne una terza. Con un esempio: o l'uomo è un animale razionale o non è un animale razionale, non è possibile vi sia una terza possibilità.

ANNO BISESTO ...ANNO FUNESTO...?

Il 29 febbraio (previsto solo negli anni bisestili) è il 60º giorno del calendario gregoriano, mancano 306 giorni alla fine dell'anno.
Un anno che ha il 29 febbraio è, per definizione, un anno bisestile. Nel calendario gregoriano, questa data cade negli anni divisibili per quattro (ad esempio, 1992, 1996, 2004, 2008 o 2012), ma non in quelli divisibili per cento (1800, 1900), a meno che non siano divisibili per quattrocento (ovvero il 2000 è stato bisestile). Nel precedente calendario giuliano la regola era più semplice: avevano il 29 febbraio tutti gli anni divisibili per quattro.

Domenica13 volte
Lunedì15 volte
Martedì13 volte
Mercoledì15 volte
Giovedì13 volte
Venerdì14 volte
Sabato14 volte
totale97

I giorni della settimana di un anno bisestile si ripetono ciclicamente ogni 400 anni. Nella tabella a lato sono riportate il numero di volte in cui cade il 29 febbraio per ogni giorno della settimana per i 97 giorni bisestili esistenti in un ciclo di 400 anni.
L'anno bisestile (366 giorni) serve a recuperare le 6 ore circa di cui l'anno civile differisce da quello solare. Fu introdotto per la prima volta dalla riforma giuliana, venne chiamato così perchè i Romani, non volendo per superstizione modificare il mese, pensarono di fare l'aggiunta, anzichè alla fine dell'anno, dopo il sesto giorno antecedente le calende di marzo (23 febbraio) che in tal modo veniva ripetuto due volte, quindi " bis sextus ".  

Pare proprio che non sia possibile rintracciare un autore preciso del motto anno bisesto, anno funesto, e che questa sia una credenza popolare esclusiva delle culture di base romana. 
Secondo alcuni, la malafama del bisesto deriverebbe dal fatto che febbraio era dagli antichi romani vissuto come un mese molto poco allegro: era il mensis feralis, il mese dei morti, quasi completamente dedicato a riti per i defunti e a cerimonie di costrizione e purificazione poiché, secondo il calendario arcaico attribuito a Romolo, si trattava dell’ultimo mese prima del nuovo anno, che nasceva a marzo. A fine febbraio si tenevano le Feralia, celebrazioni solenni in onore dei dipartiti; poi c’erano le Terminalia, dedicate a Termine dio dei Confini, e infine le Equirie, gare di corsa nel Campo di Marte attraverso 12 porte (come il numero dei segni zodiacali) per 7 giri (come il numero degli antichi pianeti). 
Queste gare erano il simbolo della conclusione di un ciclo cosmico, quindi simbolo di morte e di fine; e per tutte le culture il passaggio dal Vecchio (conosciuto) al Nuovo (sconosciuto) è sempre cosa inquietante. 
Uno dei pochi uomini di cultura che mise nero su bianco la sua opinione sugli anni bisestili, fomentando l’inquietudine e la paura, fu nel XV sec. il medico Michele Savonarola, tipetto lugubre e geremiante, degno nonno di Gerolamo. Egli affermò che i bisesti erano nefasti per greggi e vegetazioni; che portavano impennate di epidemie malariche e che erano controindicati per tutto ciò che riguardava l’acqua: quindi niente bagni e cure termali, ma soprattutto attenzione a funestanti diluvi e alluvioni. E altri allegroni, nel tempo fecero notare come i bisesti fossero anche forieri di fenomeni sismici, tirando in ballo la coincidenza dei terremoti di Messina, Belice, Friuli, Armenia, avvenuti tutti in anni bisestili. 
In realtà, l’anno bisestile è considerato funesto solo perché sin dai primordi della civiltà, tutte le cose anomale rispetto alla norma (come le eclissi, le comete, le piogge colorate ecc), venivano considerate di cattivo auspicio; un anno diverso dagli altri era strano, “mostruoso“, e perciò - scatenando le paure irrazionali ed ataviche dette superstizioni - giudicato sicuramente foriero di avvenimenti imprevisti e particolari. Ma oggi sono cose superate. Vero?
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giovedì 23 febbraio 2012

FILOSOFANDO

La filosofia è una disciplina molto antica, risalente all'antica Grecia, che si occupa di studiare il senso del mondo e dell'esistenza dell'uomo, cercando di comprendere e definire i limiti e le possibilità della conoscenza. Il termine filosofia deriva dalla parola greca φιλοσοφiα, formata da φιλεῖν (filèin), "amare", e σοφiα (sofìa), "sapienza", ossia "amore per la sapienza". E' comunque difficile dare un'unica definizione della filosofia, poiché gli stessi filosofi, nel corso del tempo, si sono orientati su problemi di natura diversa, dallo studio dell'uomo a quello della conoscenza della ragione o della conoscenza dell'essere, etc. La filosofia può essere caratterizzata dall'obiettivo ambizioso di voler rappresentare tutto il sapere assoluto oppure da quello, più moderato, di studiare le metodologie del sapere.
Amore della sapienza. Nel corso del tempo si sono affiancate diverse prospettive filosofiche nel pensiero occidentale, ognuna delle quali si trova accomunata alle altre dall’esigenza di spiegare il senso dell’esistenza, e di dare vita ad una cognizione unitaria del mondo. Già Platone spiega la filosofia come amore della conoscenza: la filosofia non deve essere considerata una forma di sapienza certa, ma deve essere inserita nella prospettiva di una continua ricerca della verità. Secondo la prospettiva di Platone, l’amore per la sapienza è qualcosa che ci accompagna per tutta la vita, in quanto tale amore è impossibile che nasca da un’assoluta pienezza (sapienza assoluta) o da un’assoluta mancanza (ignoranza assoluta). Colui che sa, il sapiente, cerca ciò che non sa. Colui che non sa, l’ignorante, non sa nemmeno di dover cercare ciò che non sa.
Filosofia come studio del tutto. In senso generale la filosofia è lo studio di tutte le cose, reali o ideali, allo scopo di comprenderne l'origine, la natura e il fine. La filosofia è lo studio di tutto tramite procedimenti razionali basati sulla logica concettuale. Si distingue dalle scienze che, invece, si occupano di studiare i singoli settori del sapere per motivi conoscitivi o pratici avvalendosi della logica matematica e dell’esperimento.
Analisi critica delle conoscenze umane. Per alcuni filosofi moderni, quali ad esempio J. Locke, I. Kant, D. Hume, ecc, la filosofia ha l'obiettivo fondamentale di indagare sui limiti del sapere. Questa concezione nasce dalla considerazione di Locke secondo la quale qualsiasi tipo di ricerca filosofica è finalizzata a capire quali oggetti l'intelletto umano è in grado di trattare.
La filosofia è la scienza del sapere, dell'essere e dell'esistenza. Il termine filosofia deriva dal greco φιλοσοφßα, a sua volta composta dalle parole φιλεῖν (amare), amare e σοφßα (sapienza). Messe insieme le due parole possono già dare un'idea della filosofia: "amore per la sapienza". La filosofia è una disciplina che pone domande e cerca delle risposte sul senso dell'esistenza umana e sui limiti della conoscenza. Il campo di studio è compreso tra l'esigenza più elevata di rappresentare il sapere assoluto e quello, più minimalista, di indagare sui metodi del sapere (metodologismo). Secondo Aristotele la filosofia nasce dal senso di stupore dell'uomo e dalla sua inquietudine nei confronti del suo rapporto con il mondo esterno. In una sola parola, la filosofia indaga sul senso della vita. Secondo Platone la filosofia non è la sapienza posseduta, bensì l'amore per la sapienza a la ricerca continua della verità. Il sapiente non cerca ciò che già sa. L'ignorante non sa di dover cercare ciò che non conosce. La ricerca della verità sul senso della vita e l'assenza di risposte compiute generano un comune senso di inquietudine nell'uomo. Dall'inquietudine hanno origine la filosofia e il discorso filosofico. In senso generale la filosofia è la scienza del tutto, in quanto indaga non su una singola materia del sapere dell'uomo bensì su tutta la sapienza, al fine di ricercare la verità sul senso della vita.

martedì 21 febbraio 2012

TOCCO DI CLASSE

Verde verde verde…
Vuoi perché in tempi di crisi si tende a sdrammatizzare vuoi perché il verde è il colore della positività per eccellenza ma quest’anno è veramente un ‘irrinunciabile’…
Bello il pastello, elegante il bottiglia ma veramente cool è il verde smeraldo. Non a caso ho voluto che le damigelle del mio matrimonio indossassero uno splendido abito in seta verde smeraldo… i dettagli fanno la differenza…
Ci sono dei monili da togliere il fiato, scarpe, accessori, borse e abiti. (Io ho appena comperato un vestito in pizzo elasticizzato verde da urlo…)
Se volete osare abbinatelo al giallo…magari un bel tubino e una camicia leggera in seta gialla.. non passerete inosservate e sarete raffinatissime…
Gaia

lunedì 20 febbraio 2012

FILOSOFANDO

Differenza filosofia scienza


La filosofia è lo studio di tutte le cose, reali o ideali, allo scopo di comprenderne l'origine, la natura e il fine. E' lo studio di tutto tramite procedimenti razionali basati sulla logica concettuale. Si distingue dalle scienze che, invece, si occupano di studiare i singoli settori del sapere, per motivi conoscitivi o pratici, avvalendosi della logica matematica e sull’esperimento.
Filosofia come scienza del tutto. La filosofia è una scienza che permette di ottenere una conoscenza vera che nel contempo è anche saggezza perché si interroga sull'esistenza dell'uomo. La filosofia è conoscenza della vera realtà di tutte le cose, lo studio dell'intero o della totalità. Nel corso del tempo il carattere scientifico della filosofia è stato definito in modo diverso, soprattutto in merito al concetto che è conoscenza di tutte le cose (il concetto di totalità, dell'universale o dell’intero). Il carattere scientifico caratterizza, in particolar modo, il pensiero filosofico occidentale fondato da Platone che prescinde da qualsiasi contesto mitico/religioso. La ricerca filosofica ha carattere scientifico e non è legata a credenze o ad atti di fede ( v. differenza filosofia e religione ). Nel medioevo, tuttavia, il richiamo di Aristotele al senso del divino viene ripreso per giustificare la collocazione della filosofia al di sotto della teologia.
Sapere assoluto. Per Aristotele e Platone la filosofia è la ricerca del principio primo delle cose. Questa visione trova la sua massima espressione con il movimento dell’idealismo romantico dove l'indagine filosofica mira al raggiungimento del sapere assoluto. La filosofia è, quindi, la scienza della scienza (G. Fichte). Il concetto di filosofia come “unico vero sapere” si ritrova in molti filosofi della storia moderna e contemporanea, per i quali la filosofia è l’unica scienza che può arrivare a raggiungere l'assoluta dimensione del reale. Il compito delle scienze positive è invece ridimensionato alla mera funzione strumentale e pratica. Questa convinzione viene però messa a dura prova con i progressi tecnologici e lo sviluppo delle scienze positive che rivalutano l'importanza delle scienze particolari come percorso verso la conoscenza e il sapere assoluto. Lo sviluppo tecnologico conduce ad una rivisitazione e ad un cambiamento nel concetto di filosofia. La filosofia moderna assume il significato di “madre delle altre scienze” allo scopo di incrementare il sapere delle altre scienze particolari, raccogliendo tutti gli assiomi generali che possono essere messi in comune fra tutte le altre scienze (F.Bacone). Questa concezione della filosofia rimane stabile anche fra i filosofi del positivismo e del neoempirismo.

venerdì 17 febbraio 2012

FILOSOFANDO

Differenza filosofia e religione


Filosofia e religione. La verità a cui vuole arrivare la filosofia deve avere comunque una dimostrazione razionale. Non deve essere un atto di fede, né essere incentrata sulla tradizione. Tale verità deve avere un senso per la vita dell’uomo. Anche la religione si interroga sul significato della vita per l'essere umano, sull'origine e sullo scopo della vita. Tuttavia, pur occupandosi delle stesse tematiche della filosofia, la religione si basa sull'esistenza del dogma e di "verità" accettate come atto di fede e senza alcuna dimostrazione razionale. La differenza tra la filosofia e la religione è pertanto la seguente:
  • Filosofia. La filosofia ricerca la verità attraverso la dimostrazione razionale.
  • Religione. La religione determina la verità attraverso le credenze, la tradizione, il dogma ecc. come atto di fede degli uomini e senza alcuna dimostrazione razionale.
Agli albori della ricerca filosofica la concezione di base è la ricerca del “tutto”, l’aspirazione alla totalità. Già con Aristotele si afferma il passaggio dal pensiero mitico a quello filosofico con l’affermazione di un principio unico, generatore di tutte le cose. La filosofia va proprio a ricercare questo fondamento. Aristotele definisce la filosofia come ricerca delle cause prime e, allo stesso tempo, come contemplazione del divino. Quest'ultima affermazione sarà ripresa nel corso del medioevo per far convergere la filosofia e la teologia, al fine di trattare la filosofia come una ricerca della verità e riflessione interna alla vita di fede. Nella scolastica medievale il nesso tra filosofia e fede si rafforza con l'opera di sistemazione di Tommaso d'Aquino. Nel medioevo il divino coincide con la rivelazione cristiana. A quell’epoca, quindi, la filosofia assume il significato di riflessione interna alla vita di fede e viene posta in una certa dipendenza dalla teologia. Questa concezione di dipendenza della filosofia nei confronti della teologia varia il suo significato tra i filosofi del tempo. Pur nella dipendenza dai contenuti di fede la filosofia conserva, tuttavia, la propria autonomia nel metodo anche nel medioevo.

martedì 14 febbraio 2012

14 Febbraio

San Valentino: festa degli innamorati.
Cambiano i tempi, i linguaggi i modi di essere e di fare in questa situazione di crisi profonda ma l’Amore no! Questa bella festa, che oserei definire della mente e del cuore cioè dell’animo umano, reclama comunque i suoi riti ed i suoi regali. Essi vanno dai piccoli gioielli, ai fiori, ad una romantica cena al lume di candela, ad una serata da trascorrere serenamente in un locale all’insegna della serenità e del divertimento.
In tanti sostengono che l’amore ha un ruolo importante nella nostra vita e che senza di esso non si può vivere; in altre parole quando si ama davvero ci si sente realizzati, appagati disposti a qualsiasi azione pur di dare all’altro la percezione di un vero rapporto sentimentale che interpreta come interesse, un sorriso, un gesto una parola, insomma qualcosa di particolarmente speciale che non costa nulla e da tanto. E’ altrettanto vero che questo particolare sentimento che da sempre ha amalgamato tra loro persone di diversa estrazione non conosce tempo né ètà, forse la parte più bella e misteriose dell’amore consta proprio in questo, per cui si incontrano e si innamorano quotidianamente persone di età diverse e perfino di nazionalità diverse. Per alcuni versi lo stesso è una condizione, un’esperienza che abbiamo vissuta tutti, maggiormente agli albori adolescenziali, ed ognuno rappresenta la sua esperienza personale . Essere invasi da quel forte sentimento è una delle esperienze particolarissime e toccanti che comportano al contempo magia ed emozione; intensità ed un pizzico di paura che esaltano l’amore in tutte le sue sfumature. L’inizio di una relazione scaturisce anche da tanti sogni, attrazione e desideri, meraviglie della scoperta e timore di non essere all’altezza delle aspettative dell’altra. A volte solo al pensiero di trovarsi in queste circostanze faceva battere forte il cuore, quindi un’emozione grande. Ma la frequentazione, il tempo abbattono questi steccati ed allora intervengono la gioia, la sicurezza ed un senso di felicità che sono gli apripista di una storia appena iniziata che ci mettono alla prova come esseri umani. Poi l’amore inteso in senso lato che significa interesse, rapporto costante, bene vero ed intenso verso i figli, gli amici, i parenti è l’altra faccia di una stessa medaglia che rappresenta e completa i rapporti sentimentali in tutti i loro aspetti.

In ogni caso, qualsiasi cosa sia l'amore, e a qualsiasi natura appartenga, ci permette di sognare... perciò il mio augurio per oggi e per sempre è che non smettiate di Sognare.
Gaia

BUON SAN VALENTINO

lunedì 13 febbraio 2012

COMMENTI

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venerdì 10 febbraio 2012

FILOSOFANDO

le origini...

La parola filosofo deriva da  "filo-sofo" (amante della sapienza) che si differenzia della sola parola "sofo" cioè sapiente. La ricerca viene  chiamata "filosofia".

Il sapiente era colui che gettava luce nell'oscurità, colui che scioglieva gli enigmi, colui che manifestava l'ignoto e precisava l'incerto. Il sapiente è colui che riesce a capire qualche cosa che appartiene in genere all'ambito del divino, del misterioso, qualcosa che è nascosto agli uomini. La verità , in altri termini, appartiene all'ambito del divino e non è data agli uomini se non in momenti o in luoghi particolari. Il sapiente è allora colui che riesce a cogliere la parola divina, colui che riesce a cogliere la sua verità e cerca di trasmetterla agli altri uomini. Ecco perché i sapienti parlavano poco e quando parlavano si esprimevano sinteticamente in detti che venivano poi trasmessi alle generazioni future, come ad es. "Ottima è la misura" (di Cleobulo), "Conosci te stesso" (attribuito a
Talete, si trova sul frontone del tempio di Delfi, e Socrate la farà sua), "Sappi cogliere l'opportunità" (Pittaco) ecc. Per noi, oggi, le parole non contano poi molto: parliamo spesso e volentieri a vanvera, diciamo una cosa e poco dopo la smentiamo, senza preoccuparci se abbiamo ferito o no una persona con quello che abbiamo detto. Nei tempi antichi non era così: la parola era "densa" di significato, era "qualcosa", aveva quasi una realtà a sé. Tale pienezza verrà a poco a poco impoverita e solo la filosofia cercherà di ricordare l'importanza della parola. La filosofia nascerà come attività a sé quando diventerà quella parola che poggia esclusivamente su di sé, e che quindi non ha bisogno di fondarsi sulla autorità di chi parla. Ma vi è ancora qualcos'altro alle origini della filosofia. Ricordiamo anzitutto la visione religiosa greca. La vita umana è concepita entro i confini segnati dagli dèi e dal destino , a cui tutti devono sottostare . Il bene e il male, d'altra parte, non sono pensati anticamente come valori morali, concetti astratti: sono invece forze oggettive, potenze che convivono nell'universo e tra esse Zeus pone l'equilibrio. Felice dunque l'uomo a cui Zeus manda il bene, infelice l'uomo a cui Zeus manda i mali! Da questo punto di vista potrebbe sembrare che la religiosità greca sia essenzialmente all'insegna del pessimismo: l'esistenza umana è per definizione effimera  e sovraccarica di affanni, poi viene la morte che non risolve, del resto, proprio nulla. Per i contemporanei di Omero, la morte era infatti una sorta di post-esistenza, ridotta ed umiliante, nelle tenebre sotterranee dell'Ade, popolate da pallide ombre, prive di ogni forza e memoria. L'uomo insomma dispone solo di questa vita terrena e solo dei propri limiti, quelli che gli sono stati assegnati dalla sua condizione.
Eppure, proprio in questa situazione, l'uomo greco potrà intravedere una soluzione positiva: la saggezza. Ed infine vi è la tragedia, che riveste un'importanza fondamentale per conoscere le condizioni che permisero la nascita e lo sviluppo della filosofia. I Greci si ponevano di fronte al teatro in modo assai diverso dai moderni. Essi assistevano alla rappresentazione teatrale nel corso di una solenne festa religiosa, programmata e organizzata dallo Stato. Per l'ateniese del 5° sec. a.C., nel teatro aveva luogo una esperienza politico-religiosa di grande importanza. La realtà di cui lo "spettatore" fa esperienza nel teatro è altrettanto concreta e presente di quella della sua esistenza quotidiana. Tuttavia non si identifica con quest'ultima: lo spettatore viene in qualche modo proiettato in una situazione capace di rivelare significati nuovi e più alti. Quando la tragedia si afferma e istituzionalizza in Atene, il mondo del mito è già visto come distante, ma non ancora estraneo o insignificante. Ciò rende possibile , nella tragedia, la riattualizzazione del mito stesso e dei suoi significati. E' una sorta di filtro attraverso il quale lo spettatore è chiamato a riflettere e ad interrogarsi su valori, credenze, istituzioni, sulla sua stessa esistenza. E' di grande importanza, in questo senso, la figura dell'eroe mitico, di cui nella tragedia si fanno rivivere le peripezie e le sofferenze. L'eroe mitico è problematico: vivono in lui qualità opposte come il coraggio, la fermezza, la capacità di soffrire, ma anche la violenza, la follia, l'orgoglioso. Conflitti ed enigmi contrassegnano tutti i grandi temi della situazione tragica. Al centro sta il rapporto tra l'uomo e il divino. Ma nel "divino" dobbiamo comprendere non solo i vari dèi ma anche e soprattutto il complesso di quelle forze della cui ineluttabilità e imperscrutabilità l'eroe tragico fa esperienza e che sono nominate come il Destino. In ogni momento l'eroe tragico si scontra con l'impossibilità di determinare autonomamente il corso degli eventi; in ogni sua azione egli si scopre "strumento" di una volontà superiore che non può controllare. Progetti e intenzioni mostrano la loro fragilità di fronte all'imprevisto, rovesciandosi in effetti contrari a quelli voluti. Poiché l'origine dell'azione si colloca insieme nell'uomo e fuori di lui, lo stesso personaggio appare ora agente, causa e fonte dei suoi atti, ora elemento passivo, immerso in una forza che lo supera e lo trascina. Qual è allora il significato di questa tensione costantemente mantenuta dai tragici tra la spontaneità dell'eroe e il destino fissato dagli dèi?
Per la nostra cultura, la responsabilità personale è sempre associata alla consapevolezza, ad una scelta compiuta liberamente. Nella cultura greca arcaica, al contrario, si può essere colpevoli di atti compiuti senza consapevolezza, come mostra la figura dell'Edipo re di Sofocle che, senza saperlo, in forza della maledizione che grava sulla sua stirpe, uccide il padre e sposa la madre. Nel conflitto tra individuo e destino, libertà e necessità, innocenza e colpa, la tragedia rappresenta il dolore come dominante dell'esistenza. I personaggi tragici soffrono e la partecipazione alla sofferenza appartiene anche allo spettatore. Ma la tragedia pone anche un forte legame tra dolore e conoscenza: l'eroe tragico soffre consapevolmente; non solo: attraverso il dolore si genera conoscenza e questo vale sia per i personaggi sulla scena che per il pubblico in teatro. L'antico detto di Esiodo, "solo soffrendo lo stolto impara", diventa il senso fondamentale dell'esperienza tragica: nel dolore l'uomo acquista la consapevolezza di ciò che è, del carattere conflittuale ed enigmatico della realtà e della sua vita. La tragedia doveva avere - teorizzerà Aristotele nella Poetica - un esito catartico (= di purificazione. Tutto questo lo ritroveremo nella filosofia: accettazione della vita, esaltazione della moderazione e della misura per trovare la felicità.
Il ns sarà un viaggio di purificazione dai ns preconcetti e di apertura alla vita attraverso le parole e il pensiero dei grandi padri della filosofiaGaia

mercoledì 8 febbraio 2012

FILOSOFANDO

ELOGIO ALLA FOLLIA - ERASMO DA ROTTERDAM
Chi non l’ha mai letto ha perso uno dei saggi più assurdi e ironici sulla natura umana
lo ha scritto il celebre Erasmo da Rotterdam, filosofo e teologo olandese, nel 1506, ed è senza dubbio la sua opera massima.
Inizia da qui la ns. rubrica, non perché nulla ci sia da dire sulla filosofia precedente, anzi, ma perché quale parte della natura umana è più interessante da studiare che la follia?... se ci pensate anche il filosofo è n po’ pazzo… da sempre additato per alcune logiche contorte e per teorie non verificabili una l’ingegno e l’intelletto per trovare risposte.. e non è forse folle? Folle nel credere di poter scrutare l’imperscutabile e di conoscere ciò che non è conoscibile… Due citazioni per cominciare:
  • L'unico fatto certo è che senza il condimento della follia non può esistere piacere alcuno.
  • La maggior parte dell'umanità indulge alla Follia e quindi le cose peggiori incontrano sempre il massimo successo.
  • In primo luogo se la saggezza consiste nell'esperienza, chi merita di più che gli venga attribuito il nome prestigioso di saggio, il sapiente, che rinuncia a qualsiasi iniziativa vuoi per ritegno vuoi per viltà, o l'insensato, che né ritegno che gli manca, né il pericolo che non valuta, trattengono da alcuna avventura? Il sapiente si rifugia dai suoi libri antichi e ne impara soltanto sottigliezze linguistiche. L'insensato ricava una autentica saggezza, se non mi sbaglio, andando incontro alle cose e affrontandole da vicino. Sembra che questo l'abbia visto Omero, anche se era cieco, quando dice: "Avendone fatto esperienza anche lo stolto sa". Infatti gli ostacoli principali per farsi un'idea delle cose sono il ritegno che annebbia lo spirito e la paura, che mostrando i pericoli distoglie dal prendere iniziative. La follia libera magnificamente da entrambi. Tra i mortali sono in pochi a capire per quanti altri vantaggi riesca utile non vergognarsi mai ed essere pronti a tutto.
Credo sia intrigante l’idea di elogiare qualcosa che tutti rifuggono, per paura o per ineguatezza, per senso di impotenza o forse perché vedono nel folle un individuo libero e ne sono invidiosi… Erasmo fa parlare in prima persona la follia stessa facendole cambiare nel corso della sua esposizione spesso veste maschera e linguaggio… Premesso ciò vi lascio alla lettura di una commedia che ci fa ragionare sull’assurdità di certe posizioni troppo rigide e ci fa riflettere su chi o cosa sia più folle; chi si lascia inscatolare in regole convenzionali e vive una vita anonima ma serena o chi si lascia tormentare dai propri ragionamenti e li espone con fierezza…
Gaia

martedì 7 febbraio 2012

HOW TO SAY

·        HIT THE ROOF
         "Hit the roof" ("colpire il tetto") significa arrabbiarsi molto o meglio "andare su tutte le furie".     
       Es. I told Jason about seeing his girlfriend kissing another man and he really hit the roof. 
       E' una locuzione molto usata e che personalmente trovo molto simpatica...
       Gaia

Grazie...

Grazie Amici che mi seguite con tanto calore.. devo decidere se lo facciate perchè vi piace ciò che scrivo o più per il piacere di tormentarmi per quello che scrivo... Anyway... Grazie!...

Adesso che vi ho fidelizzati ho deciso di creare due nuove rubbriche una sull'arte e una sulla filosofia... me lo avete suggerito voi e ho deciso di acoltarvi... Considerati gli argomenti spero tuttavia di non risultare noiosa o dispersiva, specie a chi tra voi non conosce proprio le materie...

venerdì 3 febbraio 2012

TOCCO DI CLASSE

I am in love with "boots"...

Si avete capito bene... altro accessorio indispensabile quest'anno sono gli stivaletti... belli di tutte le forme, tacco alto, basso a mezza gamba o i tronchetti.. ma assoluto "must have" sono quelli bassi a metà gamba con in pelo all'interno... sono comodi (ricordano un po' la forma della pantofola) e caldissimi..
Sono molto easy e praticamente tutte le star li indossano... Anche Jessica Alba, che, avrete capito essere tra le mie perferite, non sbaglia in colpo, li porta con una gonna di lana al ginocchio...
Bellissimi con i Jeans i danno un aria sbarazzina e fresca sia in giro con gli amici che al lavoro... una sola controindicazione... non sono per tutte! La forma un po' tozza e la totale assenza di tacco non aiuta certo a slanciare o sfinare la gamba... assolutamente vietati quindi se non avete gambe ben proporzionate e piuttosto lunghe.. No se avete il fisico un po' a pera, con i fianchi robusti...(scegliete un modello più adatto a voi... la moda va 'ascoltata' non seguita a tutti i costi..) per le altre... Assolutamente SII!!! CI PIACCIONO MOLTO!

Gaia

… ma cos’è la felicità???

… ma cos’è la felicità???
Qualche giorno fa ho letto un libro, suggerito da un amico, che individua 10 regole per raggiungere la felicità. http://www.libreriauniversitaria.it/dieci-regole-felicita-jackson-adam/libro/9788834416501
Dieci piccoli suggerimenti che appaiono subito semplici e immediati e che diamo un po’ per scontati… eppure seguendoli con un po’ di sforzo ci rendiamo conto che possono veramente migliorare la qualità della ns. vita. Se avete occasione leggetelo, rende felici anche scoprire che è molto corto ed ha un linguaggio semplice e veloce…
 Il problema che mi sono posta da quel momento è stato però di più difficile risposta… in cosa consiste quello che noi ci ostiniamo a raggiungere e che chiamiamo Felicità? Sono felice .. quanto? Veramente?..

La definizione: La felicità è lo stato d'animo (emozione) positivo di chi ritiene soddisfatti tutti i propri desideri.
Aiuto!
Se è uno stato d’animo è una cosa che cambia e muta velocemente, secondo dopo secondo… ed è proprio di chi ritiene soddisfatti i propri desideri… tutti? Alcuni? Soddisfatti appieno e solo parzialmente?
Prendiamo una famiglia come tante altre; ipotizziamo papà, mamma e un bel bambino… chiediamo al papà se è felice ‘Certo.. ho realizzato i miei desideri, ho un buon lavoro, una moglie che mi ama e soprattutto un figlio, meraviglioso… sono senz’altro felice…’ passa il tempo e questo individuo inizia a provare interesse per un’altra donna, se ne innamora (n.d.r. pur non credendolo io possibile vd. Post precedente) dicevo se ne innamora a lascia tutto per lei… ma come? ‘non ero più felice…’ ma se era ciò che avevi sempre desiderato? ‘Le cose cambiano e tra me e mia moglie non era più come prima…’ (n.d.r. lo credo bene: vuoi ancora vivere da eterno peter pan senza il peso delle responsabilità e dei doveri?) ‘E poi ora sono innamorato veramente’ scusa e prima? ‘credevo di esserlo ma non era così’ (n.d.r. ho preso l’esempio del marito ma la cosa vale tale e quale per le donne)… Cioè credevi di essere felice ma non lo eri veramente… quindi adesso credi di essere felice ma c’è la possibilità tu non lo sia veramente??? E tuo figlio? ‘Neppure lui è felice così lo sarà sicuramente di più sapendo che i suoi genitori sono sereni’ (n.d.r. cioè il bimbo è più felice vivendo tra due case, con due persone che lo educano ciascuno a suo modo, piuttosto che stare tranquillo nella sua cameretta ricevendo la bonanotte da ciascuno dei suoi genitori? Pensiamo veramente che il ns. bimbo sia così altruista da pensare al bene dei suoi genitori o forse è un po’ più egoista e preferisce averli tutti e due con sé?).
Allora non sono più d’accordo!
La felicità non può essere una soddisfazione dei ns desideri. O meglio lo è solo apparentemente!
Immaginiamo di poter soddisfare sempre e comunque tutti i desideri che abbiamo. Saremmo felici? Non credo. Forse lo saremmo di più rinunciando ad esaudire un ns. desiderio magari aiutando altri a realizzare il loro, o rinunciando a una ns. esigenza per non ferire altro (vd. Esempio del padre..)
Certo, privarsi per non ferire altre persone è tremendamente difficile e nel caso di sentimenti forti e nobili come l’amore è forse addirittura impossibile… e a dire il vero la felicità non è affatto garantita perché rinunciare alla persona amata porta dolore,  frustrazione, e senso di totale ineguatezza (n.d.r. parlo ovviamente per sentito dire da una amica…. Hi hi hi )… ma non è forse vero che la consapevolezza di aver rinunciato ad una cosa importante fa ci sentire più leali nei confronti degli altri? E che la lealtà ci fa sentire più leggeri? E allora non siamo forse felici?... e non è forse questo il tipo di felicità che conta?
In questo caso la felicità non è un emozione ma una virtù. Nel Protagora, uno dei suoi dialoghi più famosi, Platone dice che solo chi persegue la Virtù può essere felice.. arrivando a dire che è preferibile subire un torto piuttosto che commetterlo (n.d.r. mi sento molto concorde…).
La filosofia ha spesso trattato il tema.
Nella concezione aristotelica della felicità possiamo individuare tre aspetti importanti:
1. la felicità come giusta misura;
2. la felicità come realizzazione della propria natura;
3. la felicità come conseguenza di un modo di essere e non di singole azioni.
Aristotele distingue tra virtù etiche e dianoetiche. Le prime riguardano la disciplina delle passioni, le seconde il sapere e la ragione. Egli non esclude dunque un rapporto tra felicità e piacere, purché le passioni siano regolate e moderate dalla ragione. Relativamente alle virtù etiche, quindi, la virtù consiste nel giusto mezzo, che è anche l’atteggiamento per conseguire la felicità. Il piacere non si identifica con il sommo bene, quindi non può dare la felicità in senso proprio. Tuttavia, anche il piacere può contribuire alla felicità. Essendo legato alla sensibilità, però, esso è relativo ai diversi individui, e in ogni caso deve essere moderato, in modo da non turbare l’animo e da non distogliere dalla virtù. Tuttavia, anche il piacere può contribuire alla felicità. Essendo legato alla sensibilità, però, esso è relativo ai diversi individui, e in ogni caso deve essere moderato, in modo da non turbare l’animo e da non distogliere dalla virtù.
Secondo molti filosofi, la felicità consiste essenzialmente nel piacere legato ai sensi. Questa posizione è in genere legata a una concezione materialistica dell’uomo, per cui egli si risolve interamente nel suo essere fisico, nel corpo. L’anima è strettamente legata al corpo e dunque è mortale. Tuttavia, all’interno di questa concezione, è necessario distinguere almeno due varianti distinte. Da un lato l’edonismo (dal greco hedoné, piacere), secondo il quale il piacere è uno stato positivo da ricercare attivamente, è "un moto lieve dei sensi" (Aristippo di Cirene) da rinnovare continuamente. Dall’altro lato, il piacere viene inteso come serenità d’animo, assenza di turbamento e di dolore. La posizione di Epicuro è particolarmente rappresentativa di questa seconda tendenza. Secondo Epicuro, il piacere non è sempre bene di per sé. Alcuni piaceri, infatti, possono turbare l’animo, o perché troppo violenti, o perché durano poco e il loro venir meno provoca dolore. Sarà allora necessario fare un calcolo dei piaceri, sotto la guida della ragione, in modo da scegliere quelli stabili, quelli facilmente raggiungibili, quelli che non provocano dolore futuro e che non privano di piaceri maggiori. Ad esempio, mangiare e bere smodatamente può per alcuni essere un piacere. Se però analizziamo le conseguenze negative sulla forma fisica e sulla salute, ci rendiamo conto che a lungo andare tale piacere provoca dolore, e dunque è saggio astenersene. Il tema della felicità è centrale nel pensiero di Epicuro. Egli infatti muove dal presupposto che il fine del filosofare sia proprio il raggiungimento della felicità. Il rapporto tra virtù e felicità è analizzato in modo approfondito da Kant.
Il significato del ragionamento kantiano è il seguente: il desiderio di felicità non può mai essere la causa della virtù, altrimenti questa sarebbe finalizzata ad uno scopo diverso dalla virtù stessa  e non sarebbe morale. Che la virtù, perseguita in modo disinteressato, determini la felicità non è possibile nell’ambito fenomenico, della causalità fisica, ma non possiamo escludere che tale legame venga stabilito in ambito noumenico, da Dio. In questo caso, infatti, la virtù è perseguita autonomente. In altri termini, non mi comporterei moralmente se lo facessi per meritare la felicità, ma posso aspettarmi che alla virtù debba corrispondere la felicità. Questa corrispondenza non può essere assicurata dall’ordine fisico della causalità, per cui devo postulare l’esistenza di un essere onnipotente e giusto che la garantisca. In ultima analisi, quindi, la virtù dà la felicità, anche se non deve essere seguita in vista di questo fine. La morale kantiana è comunque una morale del dovere: dobbiamo conformare la volontà (l’intenzione) alla razionalità della norma. La felicità fa seguito alla morale, non la determina e non ne rappresenta l’aspetto principale.  
Certo il problema non si è risolto dopo questa breve panoramica di storia del pensiero filosofico e probabilmente ciascuno sta cercando la propria dimensione di felicità, la propria definizione e il proprio punto di soddisfazione… E se la felicità stesse proprio nel non conoscere la vera felicità?

«C'è un'ape che se posa
sopr'un botton de rosa:
l'annusa, e se ne va...

In fonno, la felicità
è una piccola cosa.
»

(Trilussa, "Felicità", da Acqua e vino, 1927; versione in romanesco)

Gaia