lunedì 5 novembre 2012

I giardinetti...

Adoro i giardinetti....
No nn dico che mi siano sempre piaciuti, anzi.. Ricordo che da piccola li odiavo...
La mamma mi ci portava spesso per via Dell'assurda idea che hanno i genitori sul fatto che i bimbi debbano uscire spesso e per quella convinzione, altrettanto infondata, sul fatto che sia bello socializzare... Io avrei preferito fare i compiti che andare ai giardinetti... Perché in fondo a me piacevano i miei giochi, le mie abitudini, mi piaceva giocare con la mia cuginetta... Ma nn conoscere nuovi bambini, quello mi metteva a disagio... Votata a pacere del gruppo non facevo che sottomettermi alle idee altrui, nn ero un leader quanto piuttosto una che nn cercava rogne ne discussioni... Così quasi sempre mi trovavo a fare giochi stupidi o noiosi o ancor peggio mi trovavo sopra una di quelle giostrine di cui ero terrorizzata...
Ora pero li trovo fantastici... Ho preso la singolare abitudine di andarci durante la pausa pranzo, mi metto li mangio bevo dalla mia borraccia termica del buon The e leggo qualcosa... È rilassante. Il vociare dei bimbi che escono da scuola mi distrae spesso ma mi diverte al tempo stesso... Ci sono i vecchietti che mi guardano come fossi una pazza e chi mi sorride. Un giorno un ragazzo di colore era seduto proprio di fronte a me al di la della piazzetta, non ci siamo parlati ma in un certo senso ci siamo conosciuti... Intenta nel fare ciò che mi piace infatti interagisco senza troppo sforzo con chi si trova li vicino, non sono costretta a parlare con loro ne a mostrarmi composta o a esibire le proprietà linguistiche per fare colpo... Nn so come spiegarlo ma è bellissimo... Ti senti libero ai giardinetti... Ecco perché li adoro... Certo non è hyde park ma per me non c'è niente di meglio....

giovedì 7 giugno 2012

DE VENERARI ARTES

Oggi, ma nel 1848 nasce Paul Gauguin  che è uno degli artisti più originali dell'800. forse passare da Botticelli a Gauguin è come fare un salto nel tempo e non saprer bene dove si va a finire... in effetti quest'ultimo da parte di quella corrente che potremmo definire post impressinista e la sua espressione artistica si distacca drasticamente dal realismo dei secoli precedenti... Non intendo tuttavia omettere la discussione su quegli artisti, che per altro piu' incontrano il mio gusto, dei decenni precedenti, ma solo cogliere l'occasione di omaggiare questo grande pittore nel giorno del suo "compleanno".La materia è molto estesa e seguire un ordine è decisamente vano...

Gauguin nasce a Parigi ma trascorre tutta la vita viaggiando da un continente all'altro. È un uomo senza radici proprie, ma di cultura ampia e aperta, alla continua ricerca delle radici più profonde della civiltà. Rifiuta la fiducia nel progresso dei suoi contemporanei della belle epoque e preferisce una vita semplice fondata su valori solidi ed essenziali.
Inizialmente Gauguin si accosta all'impressionismo, poi il suo stile procede verso una direzione molto originale. Il desiderio di evasione da una cultura considerata corrotta e decadente, e la ricerca di e valori incontaminati sono alla base del ''sintetismo'' gauguiniano: una pittura tutta di superficie, antinaturalistica, composta di zone piatte, senza sfumature e colori puri e brillanti accostati a contrasto, soprattutto quelli primari.
La sintesi a cui mira Gauguin è realizzata con la tecnica del cosiddetto cloisonnisme: cioè  la sua pittura a campiture ricorda le cloisons, le vetrate medievali delle cattedrali gotiche. Sono vetrate in cui le fugure si compongono di superfici chiuse da contorni netti (fili di piombo). È una tecnica che apprende da un altro pittore: il suo amico Èmile Bernard.
Altra importante fonte culturale dell'opera di Gauguin è la pittura giapponese (lui stesso colleziona stampe giapponesi), caratterizzata da un gusto raffinato e essenziale, dove spesso la linea di contorno è usata in funzione dinamico-espressiva (caratteristica colta anche da Klimt, poco più tardi). Uno degli esempi più noti che testimoniano il legame tra la pittura di Gauguin e l'arte giapponese è L'onda del 1888.
Oggi, ma nel 1848 nasce Paul Gauguin  che è uno degli artisti più originali dell'800.
Trascorre tutta la vita viaggiando da un continente all'altro. È un uomo senza radici proprie, ma di cultura ampia e aperta, alla continua ricerca delle radici più profonde della civiltà. Rifiuta la fiducia nel progresso dei suoi contemporanei della belle epoque e preferisce una vita semplice fondata su valori solidi ed essenziali.
Inizialmente Gauguin si accosta all'impressionismo, poi il suo stile procede verso una direzione molto originale. Il desiderio di evasione da una cultura considerata corrotta e decadente, e la ricerca di e valori incontaminati sono alla base del ''sintetismo'' gauguiniano: una pittura tutta di superficie, antinaturalistica, composta di zone piatte, senza sfumature e colori puri e brillanti accostati a contrasto, soprattutto quelli primari.
La sintesi a cui mira Gauguin è realizzata con la tecnica del cosiddetto cloisonnisme: cioè  la sua pittura a campiture ricorda le cloisons, le vetrate medievali delle cattedrali gotiche. Sono vetrate in cui le fugure si compongono di superfici chiuse da contorni netti (fili di piombo). È una tecnica che apprende da un altro pittore: il suo amico Èmile Bernard.
Altra importante fonte culturale dell'opera di Gauguin è la pittura giapponese (lui stesso colleziona stampe giapponesi), caratterizzata da un gusto raffinato e essenziale, dove spesso la linea di contorno è usata in funzione dinamico-espressiva (caratteristica colta anche da Klimt, poco più tardi). Uno degli esempi più noti che testimoniano il legame tra la pittura di Gauguin e l'arte giapponese è L'onda del 1888.
http://it.wahooart.com/A55A04/w.nsf/Opra/BRUE-8EWPJF


e per approfondire http://it.wikipedia.org/wiki/Paul_Gauguin 


mercoledì 6 giugno 2012

DE VENERARI ARTES

Questo straordinario pittore è nato proprio il 06/06 ed è stato uno dei più importanti artisti del Barocco.Le due opere che ho scelto, e che ho avuto il privilegio di vedere credo siano tra le più famose della sua produzione e, se posso esprimere un giudizio, “la Venere allo specchio” detto anche “la tiolette di venere”è in assoluto uno dei miei dipinti prefertiti.
Diego Rodriguez (1599-1660) è sicuramente il pittore spagnolo più influente del XVII secolo, introducendo nella penisola iberica le novità naturalistiche della pittura caravaggesca che si sta sviluppando in tutta Europa. La sua attività si svolse tutta presso la potente corte spagnola, nella quale entrò giovanissimo nel 1623, dopo un apprendistato giovanile nel quale sviluppa un’arte dai toni molto realistici. Quale pittore di corte la sua attività si incentrò prevalentemente sui ritratti, nei quali il suo istinto al realismo venne attenuato da ovvie esigenze di rappresentazione aulica. Ma la sua capacità di giocare con il tema della realtà e dell’illusionismo creato dalla pittura lo portò a creare capolavori straordinari come «Las meninas», pur partendo da un lavoro di tipo ritrattistico.
Velázquez fu molto influenzato dalla pittura italiana, la cui conoscenza ebbe modo di approfondire in due viaggi nella penisola, il primo nel 1629 e il secondo, durato due anni, nel 1649. In particolare la pittura veneziana del Cinquecento gli diede notevoli spunti per affinare le sue qualità cromatiche e di stesura pittorica, che, alla luce di quello che è avvenuto nei secoli successivi, ci appaiono oggi di una modernità straordinarie.
OPERE
Las Meninas, 1656, Museo del Prado, Madrid

Il titolo del quadro, dalla parola portoghese «menina», significa «damigelle d’onore». In realtà è questo un ritratto collettivo della famiglia del re di Spagna, Filippo IV, e di alcune persone a loro più vicine, tra cui lo stesso Velazquez. I personaggi, in base alla identificazione accertata, sono i seguenti. Partendo da sinistra, in primo piano, abbiamo innanzitutto Velazquez, quindi l’infanta Margarita, figlia dei sovrani di Spagna, circondata da due damigelle d’onore: Maria Augustina a sinistra e Isabel de Velasco sulla destra. Seguono poi due nani, Mari-Barbola e Nicolasito Pertusato, con un cane accovacciato ai loro piedi. In secondo piano, sulla destra, sono ritratti donna Marcela de Ulloa, addetta al servizio delle dame di corte, e don Diego Ruiz de Azcona, funzionario addetto all’accompagnamento delle donne di corte. Nel vano della porta appare don José Nieto Velazquez, maresciallo di palazzo. Infine, nello specchio posto sulla parete si vedono i due sovrani di Spagna, Filippo IV e sua moglie Marianna d’Austria.
L’originalità del quadro è nel ribaltamento del punto di vista: nei ritratti ciò che in genere vediamo è l’immagine dal punto di vista di chi dipinge (il pittore), in questo caso ciò che vediamo è l’immagine vista da chi è dipinto (i sovrani in posa). È come se fossero loro a realizzare il quadro e non viceversa.
In pratica se ciò avviene è per la straordinaria capacità inventiva di Velazquez, che per rendere possibile questi ribaltamenti di punti di vista ricorre sapientemente all’uso degli specchi. Innanzitutto è facile immaginare che la parete alle spalle dei due sovrani (cioè quella alle nostre spalle se fossimo nel quadro anche noi spettatori) sia occupata da un grande specchio, dove Velazquez vede riflessa appunto l’immagine che sta componendo sulla tela che ha dinanzi (e che noi vediamo parzialmente di spalle) e che corrisponde proprio al quadro che stiamo ora osservando. Sulla parete in fondo, un altro specchio, incorniciato da una pesante cornice nera, ci rimanda invece la figura dei due sovrani, Filippo IV e sua moglie Marianna d’Austria.
I due sovrani stanno in posa, anche se il quadro che Velazquez sta realizzando non è il loro ritratto ma l’immagine riflessa dallo specchio alle loro spalle. I due sovrani appaiono quindi solo nello specchio di fondo, e ciò ovviamente ci dà la sensazione che sono loro i reali spettatori dell’immagine, perché chi guarda non può vedere se stesso se non come riflesso in uno specchio. Quindi appare sicuramente plausibile l’illusione che siano i due sovrani a «fare» il quadro, perché quello che vediamo corrisponde esattamente a ciò che loro vedevano quando posavano per un ritratto.
Ovviamente in tutto questo vi è una profonda componente concettuale, che porta inevitabilmente a riflettere sul ruolo dell’arte in genere e della pittura in particolare. È come un guardare «dentro» al meccanismo della pittura, per svelarne alcuni segreti che i pittori conoscono, ma forse gli altri no. Innanzitutto vi è la componente dell’ordine compositivo che distingue la rappresentazione dalla realtà. Nei quadri il pittore organizza tutto nel miglior modo possibile: sceglie un motivo, sviluppa una composizione, distribuisce i pesi con certi equilibri, e così via. In questo senso il quadro è un’astrazione dalla realtà, proprio perché può organizzare l’immagine in tutta libertà. Invece la realtà non ha lo stesso principio di ordine compositivo che sovrintende la pittura: la realtà è informe e caotica, così come in un certo senso appare anche in questo quadro di Velazquez. Le persone che noi vediamo sanno di non essere in posa e così si distribuiscono senza un ordine preciso. Non fanno gruppo, ognuno si pone lì dove capita. Anche lo spazio che è alle loro spalle non sembra il più idoneo per un quadro: non è uno sfondo omogeneo e organizzato. Da notare anche il particolare dell’uomo che compare dalla porta aperta sullo sfondo, che crea un ulteriore spazio di profondità, oltre quello della stanza in cui sono collocate le persone, che sembra un ulteriore elemento di casualità.
In pratica, con questo quadro, Velazquez crea un’opera di mirabile realismo, non solo perché è una fedele rappresentazione della realtà, ma anche perché ci aiuta a capire tutta la differenza che c’è tra l’arte (in quanto rappresentazione della realtà) e la realtà stessa. La prima è un modo, praticamente sempre, di isolare dalla realtà solo alcuni aspetti che noi preferiamo, e di aggiustarli secondo le nostre preferenze di ordine estetico o concettuale. La realtà, invece, è un continuo, caotico e informe, dove i principi dell’arte sono solo una finzione.
Ovviamente si può obiettare che la casualità della scena è solo apparente, e che anche qui l’artista ha dovuto operare delle scelte di carattere compositivo. Le due damigelle, che sono di fianco alla piccola infanta Margarita, una è in piedi l’altra è in ginocchio: sono collocate in posizione tale che non ci impediscono di vedere lo specchio e la porta aperta sulla parete di fondo. Anche le due figure sulla destra, come il pittore sulla sinistra, sono collocati in modo da non ostacolare la visione in profondità, altrimenti il mirabile gioco inscenato da Velazquez sarebbe risultato compromesso. Ma tutto ciò non fa che accentuare la sensazione che dicevamo prima: in fondo anche questo è un quadro, cioè arte, anche se riesce a farci capire un po’ di più la distanza (o la vicinanza) che c’è tra realtà e finzione.

La toilette di Venere, 1647-51, National Gallery, Londra

Il quadro è l’unico nudo che conosciamo della produzione pittorica di Velazquez. Del resto in Spagna, nazione nel corso del Seicento fortemente cattolica, di certo non era consigliabile una produzione di soggetti tendenzialmente erotici, se non si voleva finire nella maglie della terribile inquisizione spagnola. Questo quadro fu realizzato per il marchese del Carpio, e probabilmente non fu mai esposto, in quel tempo, alla pubblica visione.
In questa immagine Velazquez si rifà chiaramente ai nudi tizianeschi, del resto ben noti in Spagna, ma rispetto ai modelli ribalta la posizione della figura. La donna semidistesa non guarda verso di noi, ma ci dà le spalle. Riusciamo ad ammirarne il volto solo grazie allo specchio che l’amorino sorregge per farla specchiare.
Anche in questo caso Velazquez ricorre al gioco degli specchi per ampliare la possibilità della rappresentazione, facendoci vedere contemporaneamente ciò che è davanti e ciò che è dietro. Malizioso ed intrigante questo quadro mostra, a mio parere, la sensualità e l’eleganza della donna anche nei gesti piu’ semplici e giornalieri.

lunedì 28 maggio 2012

FILOSOFANDO

L'AMORE AI TEMPI DI PLATONE... E DI OGGI!

La principale differenza tra l'amore di oggi e quello dei tempi di Platone è che al giorno d'oggi abbiamo in mente un amore "bilanciato", biunivoco, dove i due amanti si amano reciprocamente; ai tempi di Platone era univoco, uno amava e l'altro si faceva amare :nel mondo greco o l'uomo amava la donna o l'uomo amava l'uomo: l'omosessualità era diffusissima. Talvolta ci poteva essere un amore biunivoco, che Platone spiegava ricorrendo sempre alla teoria del flusso che intercorre tra gli occhi: secondo lui poteva venirsi a creare una situazione di "specchio": in realtà l'amato vede negli occhi di chi lo ama se stesso perchè vede riflessa la propria bellezza; è una concezione mitica che rievoca i celeberrimi versi di Dante: "amor, ch'a nullo amato amar perdona...":è come se chi è amato si innamorasse del sentimento stesso. Personalmente ho sempre riflettutto su quest’aspetto dell’amore se sia il sentimento come tale o la persona a farci innamorare (v.d. http://gaiat.blogspot.it/2012/01/lamore-razionale.html ) Platone ci parla dell'amore(in Greco "eros", che è l'amore passionale ed irrazionale, diverso da "agapè", l'amore puro) .Quella di Platone, oltre ad essere un'epoca di passaggio tra oralità e scrittura, è anche un'epoca in cui emerge un importante quesito: come si fanno ad educare i cittadini? Vi era chi rispondeva che l'unica via era la filosofia(tra questi Platone stesso),e chi, come Isocrate, sosteneva che per tale funzione ci fosse la retorica. Platone, dunque, vuole argomentare in difesa della filosofia: le vicende si svolgono nella campagna circostante Atene, in una calda giornata estiva. Protagonista è Socrate ,che si potrebbe dire sempre presente nei dialoghi di Platone sebbene man mano che l'autore matura tenda a sfumare; Socrate in campagna si imbatte in Fedro, un suo discepolo che ama i bei discorsi a tal punto da trascriverli tutti. I due si siedono al riparo dal sole sotto un platano e Fedro mostra a Socrate un'orazione di Lisia, uno dei più grandi oratori greci, che si è appena trascritto:è un'orazione riguardante l'amore a carattere "sofistico", si cercano cioè di dimostrare cose paradossali ed assurde: Lisia (va senz'altro notato come Platone ben riproduca lo stile lisiano)cerca di dimostrare come sia meglio concedersi a chi non ama: Lisia parte dal presupposto che l'amore sia una "follia" e che concedersi a chi ama è una stoltezza: si avrebbe un amore troppo "appiccicaticcio" che se mai si rompesse farebbe soffrire terribilmente l'innamorato-amante;poi dopo che è passato l'ardore iniziale si torna in sè e ci si rimprovera di esseresi comportati così da "rimbambiti" e si finisce per soffrire di continuo. Con una persona non amata è chiaro che ci si comporterebbe in tutt'altro modo:più che altro si penserebbe ad essere felici noi rispetto all'amato non amato . Socrate a sua volta imposta due discorsi: nel primo conferma la tesi lisiana, mentre nel secondo sostiene che il suo "demone"(una specie di coscienza personale-angelo custode che si fa sentire solo quando Socrate sta commettendo un errore) lo sta ammonendo, facendogli capire che sta clamorosamente sbagliando. Anche per Socrate l'amore è una follia, però,a differenza di Lisia, per lui è positiva: vi sono infatti follie dannose e negative, ma anche positive e benigne. Poi Socrate formula un nuovo discorso per farsi perdonare per quel che ha detto dal dio dell'amore ("Eros").E' difficile comprendere quale sia il tema centrale(l'amore? La retorica?); fatto sta che sono due argomenti strettamente connessi tra loro in quanto l'amore(l'eros)è una metafora per indicare la filosofia: questa stretta parentela Platone la esamina meglio nel "SIMPOSIO"(dal Greco sun+pino=bere insieme),il suo capolavoro : Socrate si sta dirigendo verso la casa del tragediografo Agatone quando incontra un amico;allora invita anche l'amico e quando sono ormai arrivati , Socrate comincia a riflettere intensamente. Durante i simposi (all'epoca non c'era la TV e le serate si trascorrevano cosi')veniva nominato un simposiarca il cui compito era quello di dare un ordine alla discussione facendo passare la parola da un invitato all'altro e selezionare l'argomento da trattare. Si sceglie di parlare dell'amore: c'è chi dice che Eros è la divinità più giovane e più bella, chi dice che è la più vecchia in quanto forza generatrice di tutto, chi sostiene che sia una forza cosmica che domina la natura, chi suggerisce che sia un tentativo da parte di tutti gli enti finiti di eternarsi procreando, c'è chi è del parere che sia la divinità più valorosa in quanto riesce a dominare perfino la guerra, facendo riferimento all'episodio mitico secondo il quale Ares, il dio della guerra, sarebbe innamorato di Afrodite. Aristofane, celeberrimo commediografo, narra una storia semiseria: si tratta di un mito secondo il quale gli uomini un tempo erano tondi, sferici e doppi: questi esseri si sentivano forti e perfetti e peccarono di tracotanza; gli dei per punirli li tagliarono a metà e per ricucirli fecero loro un nodo ( l'ombelico) sulla schiena; poi lo posizionarono sulla pancia perchè si ricordassero di quanto era successo ogni volta che guardavano in basso: questi esseri sentivano il bisogno di ritrovare l'altra metà e la cercavano disperatamente. Quando la trovavano si attaccavano e non si staccavano più neanche per mangiare e cosi' morivano di fame; cosi' gli dei crearono l'atto sessuale che consentiva di trovare un appagamento da questa unione. Questo mito originale ci spiega due cose: a ) in ogni epoca i rapporti sessuali sono sempre stati etero e omo. b )il tentativo di ritornare ad una situazione primordiale. Notare che nel mondo greco la forma sferica è sempre vista come unità originaria perfetta( cosi' era già in altri grandi filosofi quali Empedocle,Parmenide...).Se si leggono accuratamente tutti i discorsi ci si accorge che ognuno di essi contiene una parte di verità: il discorso finale di Socrate non sarà nient'altro che una sintesi in cui li unisce praticamente tutti. Egli racconta di essersi una volta incontrato con una sacerdotessa(Diotima)che gli ha rivelato tutti i misteri dell'eros: viene a proposito citato un mito riguardante i festeggiamenti divini per la nascita di Afrodite: tra le varie divinità ci sono anche Poros(astuzia,furbizia)e Penia(povertà). Essi, ormai ubriachi per l'eccessivo bere, si uniscono e viene cosi' concepito Eros, che ha quindi le caratteristiche dei suoi genitori: è ignorante, povero e brutto a causa di Penia, ma sa cavarsela sempre grazie a Poros. Non è bello, ma sa andare a caccia della bellezza; egli sente l'amore ed è soggetto della ricerca della bellezza e dell'amore, svolge le mansioni dell'amante e non dell'amato. Chiaramente se ricerca la bellezza significa che non la possiede: così il filosofo è privo e bisognoso del sapere (penia=povertà),ma ha anche le capacità di cercarsi e di procurarsi ciò di cui è privo (poros=astuzia,espediente);dato che Eros è privo di bellezza e le cose buone sono belle, manca anche di bontà; ciò che non è bello o buono, non è necessariamente brutto e cattivo; per Platone vi è un livello intermedio; tra il sapere e l'essere ignoranti la via di mezzo consiste nell'avere buone opinioni, senza però darne ragione; la posizione intermedia comunque non è un male perchè è uno stimolo per arrivare al top: chi si trova nella posizione più bassa sa di non potersi elevare e neanche ci prova, chi si trova in quella più alta non si deve impegnare perchè è già nella posizione ottimale: chi si impegna e lavora è chi si trova in una zona intermedia (i filosofi, che non sanno ma si sforzano di avvicinarsi al sapere).Tutti gli dei, gli aveva detto Diotima, sono belli e buoni e di conseguenza Eros non rientra nella categoria. Anche da questo punto di vista Eros riveste una posizione intermedia: non è un dio, ma neanche un mortale: è un qualcosa che nasce e muore di continuo; è una metafora con cui si vuole dimostrare che non si può mai possedere totalmente l'amore; l' amore è metafora della filosofia perchè l'uomo non possiede il sapere, ma si sforza per ottenerlo; può riuscire ad avvicinarvisi, ma non si tratta comunque di una conquista definitiva: il pieno sapere è irraggiungibile. Dunque Eros è una semi-divinità intermedia. Nella struttura sociale dell'epoca l'omosessualità era tipica dei filospartani e di coloro che avevano un'impostazione culturale arcaica: è questo il caso di Socrate e Platone. Il rapporto veniva vissuto "pedagogicamente", vale a dire che era un rapporto di tipo maestro-allievo. A differenza dell'amore eterosessuale, di livello più basso in quanto volto al piacere fisico e alla procreazione materiale, quello omosessuale era di più alto livello in quanto volto alla procreazione spirituale: vengono fecondate le anime per procreare nuove idee. Propriamente in Socrate non si parlava di amore, ma vanno tenute in considerazione le affermazioni a riguardo della maieutica(Socrate diceva di fare lo stesso lavoro della madre che era un'ostetrica: lei faceva partorire le donne, lui le idee): Socrate aveva quindi già in mente anime gravide da far partorire; Platone invece sostiene che ci sia una vera e propria fecondazione delle anime, che chiaramente non devono essere sterili. Ben si intuisce che la ricerca dell'amore combacia con quella della filosofia. Alla fine del Simposio irrompe improvvisamente il famoso Alcibiade, totalmente ubriaco, che racconta pubblicamente di aver fatto delle "avances" a Socrate ,che però non ha accettato: lui,bello,giovane,aitante con un vecchio decrepito che non ci sta: il che sta a significare che la bellezza esteriore conta meno di quella interiore, ed è anche un modo per ribadire il concetto della scala gerarchica dell'amore. Socrate non ci viene presentato come un asceta: egli è totalmente immerso nella sua realtà, ma non si lascia catturare: ai festini lui partecipa tranquillamente, pur non identificandovisi; dagli altri si distingue perchè mantiene sempre la sua capacità di giudizio(nel Simposio è l'unico a non addormentarsi).
Questo interessante salto nel pensiero antico porta alla luce, a mio parere, le immense differenze con il “nostro” modo di vedere l’amore. Certo oggi diamo molta piu’ importanza al sentimento e lo esaltiamo quasi come fosse l’unico motore che muove le cose, alcuni preconcetti tabu’ ci costringono a fare una netta distinzione tra la purezza dell’amore e la carnalità dell’atto sessuale.. per alcuni aspetti sono ovviamente concorde ma, non stiamo forse dando troppa importanza a questo sentimento? Non è forse piu’ semplice e risolutivo pensare sia solo un istinto che nasce dal bisogno di far continuare la specie?.. semplicistico?.. non so! Sicuramente problematico perché, se così fosse ci comporteremmo come gli animali.. e che c’è di male in questo? È così assurdo che noi, che siamo una specie animale, ci comportiamo come essi?... ovviamente queste sono solo mere provocazioni per farvi riflettere sul fatto che probabilmente, sovrastimiamo il concetto di Amore. O no?.. a voi l’ardua sentenza … forse siamo noi ad attribuire forza a questo sentimento per giustificare le ns reazioni e la ns follia? O, quando siamo innamorati, siamo guidati da qualcosa di piu’ grande di noi? Ed è poi vero che oggi l'amore che viviamo è "bilanciato"e "biunivoco"?

Gaia

venerdì 25 maggio 2012

DE VENERARI ARTES

Il filo cronologico imporrebbe la necessità di parlare, dopo il Botticelli, del periodo successivo cioè del ‘500 tuttavia mi sembra un peccato nn soffermarci un attimo sul periodo precedente e contemporaneo al grande Maestro sopraccitato, il 400. A Firenze, in un breve e intenso arco di anni, un architetto (Brunelleschi), uno scultore (Donatello), un pittore (Masaccio), attuarono una rivoluzionaria trasformazione della concezione e delle funzioni dell'attività artistica. Le  possibilità fornite del mezzo prospettico di misurare, conoscere e ricreare uno spazio a misura umana, sono espresse nella chiara scansione geometrica delle architetture di Brunelleschi, nel proporzionato ambito spaziale che accoglie le figure “eroiche” dei rilievi di Donatello e dei dipinti di Masaccio. La libertà, l'autonomia, il vivace sperimentalismo con cui vennero interpretati i termini fondamentali della cultura rinascimentale. Il mecenatismo dei signori fece dell'arte non solo l'ornamento della vita della corte, ma propriamente la giustificazione ideologica del potere, lo strumento di prestigio dell'azione politica. Si spiega con ciò il fenomeno di piccole città che diventarono intensi centri culturali per il concorso di letterati, umanisti, artisti e artigiani alla corte del signore.  La Repubblica di Venezia, tesa ad ampliare i suoi domini nell'entroterra e venuta quindi a contatto con Padova e Verona, accolse artisti da Firenze e a Venezia giunse a maturazione l'esperienza di Antonello da Messina. Nella seconda metà del Quattrocento Firenze era ancora la capitale indiscussa della cultura italiana: il mecenatismo dei Medici toccò il suo punto più alto alla corte del grande Lorenzo. Altri  artisti importanti di questo secolo furono:  Piero della Francesca, Van  Eyck, Bosch, Botticelli e Carlo Crivelli. Il Rinascimento è un periodo artistico e culturale della storia d'Europa, che si sviluppò, quindi, a partire da Firenze tra la fine del Medioevo e l'inizio dell'età moderna, in un arco di tempo che va all'incirca dalla seconda metà del XIV secolo fino al XVI secolo, con ampie differenze tra disciplina e disciplina e da zona a zona.Il Rinascimento, vissuto dalla maggior parte dei suoi protagonisti come un'età di cambiamento, maturò un nuovo modo di concepire il mondo e se stessi, sviluppando le idee dell'umanesimo nato in ambito letterario nel XIV secolo (da Petrarca) e portandolo a influenzare per la prima volta anche le arti figurative e la mentalità corrente. ( http://it.wikipedia.org/wiki/Rinascimento ).
Nonostante lo stile nn mi appartenga ho deciso di parlarvi di Piero della Francesca che è senza dubbio uno dei più grandi pittori italiani del Quattrocento. La sua pittura spaziosa, monumentale e impassibilmente razionale è senza dubbio uno dei raggiungimenti più alti degli ideali artistici del primo Rinascimento, un'età in cui arte e scienza erano unite da vincoli profondi. Come Leonardo da Vinci, nato due generazioni dopo di lui, Piero fu un grande sperimentatore: grande maestro dell'affresco, tecnica nella quale eccelse, fu interessato soprattutto all'applicazione delle regole recentemente riscoperte della prospettiva alla pittura narrativa e devozionale: l'assoluto rigore matematico delle sue creazioni contribuisce ad esaltare la qualità astratta ed iconica della sua pittura, conferendo ai suoi capolavori una potente valenza sacrale.

«Monarca della pittura» ai suoi tempi - come lo dichiarò il concittadino Luca Pacioli (1494) -, poco dopo la morte la sua opera venne ben presto dimenticata, se si eccettuano il profilo che gli dedicò Giorgio Vasari nelle due edizioni delle sue Vite (1550; 1568) e i ricordi per la sua attività di teorico della prospettiva contenuti in alcuni trattati cinquecenteschi di architettura. La grande stagione della «maniera moderna» con i suoi protagonisti - Leonardo, Raffaello e Michelangelo - fece d'un tratto apparire ad artisti, committenti e collezionisti di un gusto ormai superato tutti i capolavori dei grandi maestri del Quattrocento. Si dovette attendere la riscoperta sette e ottocentesca dei «pre-raffaelliti» perché amatori e storici dell'arte ritornassero a guardare e ad apprezzare le opere del maestro di Sansepolcro: ma sono stati soprattutto gli studi novecenteschi a far riacquistare a Piero della Francesca quel ruolo di primo piano che gli compete nello sviluppo della pittura italiana moderna.

il percorso artistico di Piero si mosse tra Firenze, Arezzo (dove realizzò uno dei suoi capolavori: «La leggenda della Vera Croce»), Ferrara e Urbino, dove fu chiamato ad operare da Federico di Montefeltro. Nella cittadina marchigiana, dove aveva sede in quegli anni una delle maggiori corti italiane, Piero venne a contatto con altri artisti europei, tra i quali il fiammingo Giusto di Gand. Questo contatto gli diede l’occasione di approfondire la conoscenza della luce e della sua rappresentazione pittorica. Ma l’interesse per gli aspetti «sensibili» non riuscirono a superare quelli per gli aspetti intellettuali della visione, come ci testimoniano alcuni dei suoi maggiori capolavori, quali la «Flagellazione di Urbino» o la «Pala di Brera».
La scansione geometrica e la simmetria sono i princìpi su cui Piero della Francesca organizza non solo la distribuzione generale degli affreschi, ma anche gli aspetti formali, i ritmi  i colori e i singoli elementi.
Le forme, nello stile inconfondibile di Piero tendono tutte a diventare volumi geometrici luminosissimi, i colori sono chiari e calibrati, la luce è bianca e astratta e risponde alle leggi prospettiche come tutto il resto.  Ogni cosa o personaggio si inserisce armonicamente in uno spazio perfetto e razionale, costruito prospetticamente. Ogni movimento e ogni azione è come congelato come se il tempo si fosse fermato.
Il mondo rappresentato da Piero non è quello esteriore della natura ma sembra essere un mondo tutto astratto, costruito dalla mente razionale dell'uomo.
Gaia







DE VENERARI ARTES

Il filo cronologico imporrebbe la necessità di parlare, dopo il Botticelli, del periodo successivo cioè del ‘500 tuttavia mi sembra un peccato nn soffermarci un attimo sul periodo precedente e contemporaneo al grande Maestro sopraccitato, il 400. A Firenze, in un breve e intenso arco di anni, un architetto (Brunelleschi), uno scultore (Donatello), un pittore (Masaccio), attuarono una rivoluzionaria trasformazione della concezione e delle funzioni dell'attività artistica. Le  possibilità fornite del mezzo prospettico di misurare, conoscere e ricreare uno spazio a misura umana, sono espresse nella chiara scansione geometrica delle architetture di Brunelleschi, nel proporzionato ambito spaziale che accoglie le figure “eroiche” dei rilievi di Donatello e dei dipinti di Masaccio. La libertà, l'autonomia, il vivace sperimentalismo con cui vennero interpretati i termini fondamentali della cultura rinascimentale. Il mecenatismo dei signori fece dell'arte non solo l'ornamento della vita della corte, ma propriamente la giustificazione ideologica del potere, lo strumento di prestigio dell'azione politica. Si spiega con ciò il fenomeno di piccole città che diventarono intensi centri culturali per il concorso di letterati, umanisti, artisti e artigiani alla corte del signore.  La Repubblica di Venezia, tesa ad ampliare i suoi domini nell'entroterra e venuta quindi a contatto con Padova e Verona, accolse artisti da Firenze e a Venezia giunse a maturazione l'esperienza di Antonello da Messina. Nella seconda metà del Quattrocento Firenze era ancora la capitale indiscussa della cultura italiana: il mecenatismo dei Medici toccò il suo punto più alto alla corte del grande Lorenzo. Altri  artisti importanti di questo secolo furono:  Piero della Francesca, Van  Eyck, Bosch, Botticelli e Carlo Crivelli. Il Rinascimento è un periodo artistico e culturale della storia d'Europa, che si sviluppò, quindi, a partire da Firenze tra la fine del Medioevo e l'inizio dell'età moderna, in un arco di tempo che va all'incirca dalla seconda metà del XIV secolo fino al XVI secolo, con ampie differenze tra disciplina e disciplina e da zona a zona.Il Rinascimento, vissuto dalla maggior parte dei suoi protagonisti come un'età di cambiamento, maturò un nuovo modo di concepire il mondo e se stessi, sviluppando le idee dell'umanesimo nato in ambito letterario nel XIV secolo (da Petrarca) e portandolo a influenzare per la prima volta anche le arti figurative e la mentalità corrente. ( http://it.wikipedia.org/wiki/Rinascimento ).
Nonostante lo stile nn mi appartenga ho deciso di parlarvi di Piero della Francesca che è senza dubbio uno dei più grandi pittori italiani del Quattrocento. La sua pittura spaziosa, monumentale e impassibilmente razionale è senza dubbio uno dei raggiungimenti più alti degli ideali artistici del primo Rinascimento, un'età in cui arte e scienza erano unite da vincoli profondi. Come Leonardo da Vinci, nato due generazioni dopo di lui, Piero fu un grande sperimentatore: grande maestro dell'affresco, tecnica nella quale eccelse, fu interessato soprattutto all'applicazione delle regole recentemente riscoperte della prospettiva alla pittura narrativa e devozionale: l'assoluto rigore matematico delle sue creazioni contribuisce ad esaltare la qualità astratta ed iconica della sua pittura, conferendo ai suoi capolavori una potente valenza sacrale.

«Monarca della pittura» ai suoi tempi - come lo dichiarò il concittadino Luca Pacioli (1494) -, poco dopo la morte la sua opera venne ben presto dimenticata, se si eccettuano il profilo che gli dedicò Giorgio Vasari nelle due edizioni delle sue Vite (1550; 1568) e i ricordi per la sua attività di teorico della prospettiva contenuti in alcuni trattati cinquecenteschi di architettura. La grande stagione della «maniera moderna» con i suoi protagonisti - Leonardo, Raffaello e Michelangelo - fece d'un tratto apparire ad artisti, committenti e collezionisti di un gusto ormai superato tutti i capolavori dei grandi maestri del Quattrocento. Si dovette attendere la riscoperta sette e ottocentesca dei «pre-raffaelliti» perché amatori e storici dell'arte ritornassero a guardare e ad apprezzare le opere del maestro di Sansepolcro: ma sono stati soprattutto gli studi novecenteschi a far riacquistare a Piero della Francesca quel ruolo di primo piano che gli compete nello sviluppo della pittura italiana moderna.

il percorso artistico di Piero si mosse tra Firenze, Arezzo (dove realizzò uno dei suoi capolavori: «La leggenda della Vera Croce»), Ferrara e Urbino, dove fu chiamato ad operare da Federico di Montefeltro. Nella cittadina marchigiana, dove aveva sede in quegli anni una delle maggiori corti italiane, Piero venne a contatto con altri artisti europei, tra i quali il fiammingo Giusto di Gand. Questo contatto gli diede l’occasione di approfondire la conoscenza della luce e della sua rappresentazione pittorica. Ma l’interesse per gli aspetti «sensibili» non riuscirono a superare quelli per gli aspetti intellettuali della visione, come ci testimoniano alcuni dei suoi maggiori capolavori, quali la «Flagellazione di Urbino» o la «Pala di Brera».
La scansione geometrica e la simmetria sono i princìpi su cui Piero della Francesca organizza non solo la distribuzione generale degli affreschi, ma anche gli aspetti formali, i ritmi  i colori e i singoli elementi.
Le forme, nello stile inconfondibile di Piero tendono tutte a diventare volumi geometrici luminosissimi, i colori sono chiari e calibrati, la luce è bianca e astratta e risponde alle leggi prospettiche come tutto il resto.  Ogni cosa o personaggio si inserisce armonicamente in uno spazio perfetto e razionale, costruito prospetticamente. Ogni movimento e ogni azione è come congelato come se il tempo si fosse fermato.
Il mondo rappresentato da Piero non è quello esteriore della natura ma sembra essere un mondo tutto astratto, costruito dalla mente razionale dell'uomo.
Gaia

giovedì 24 maggio 2012

Riflessioni ad alta voce

Sebbene io faccia sempre piu’ fatica a trovare una logica alla mia routine quotidiana mi rendo conto, con difficoltà, che in fondo una logica c’è… sono sempre stata apparentemente estroversa ma profondamente solitaria e mentre mi facevo sopraffare dagli eventi, come uno che disperato cerca un appiglio mentre cade dal 30esimo piano, mi sono resa conto che ho raggiunto un punto di stabilità. Un equilibrio difficile, sempre in bilico e in pericolo, una stabilità fatta di tante piccole tensioni, fragili.. non so se è ciò che avrei voluto essere, ho ceduto a molti compromessi e certamente ho commesso piu’ errori che cose giuste, eppure tutto mi ha portata a ciò che sono… una logica contorta mi induce a pensare di aver raggiunto degli obbiettivi importanti e mi fa sentire fiera delle mie fragilità e dei continui sbagli… una logica assurda mi fa pensare a come sia bello trovare la propria strada incrociando continuamente quella degli altri, mi costringe a pensare che trovarsi davanti a dei bivi ti costringe a riflettere su chi sei… e mi fanno pena quelle persone che vivono vite integerrime e perfette… è troppo facile avere delle certezze se non ci si mette mai in gioco, bravi a quelli che sono 10 gradini sopra di me.. voi certamente non sbagliate ma siete certi di Vivere?
Gaia

giovedì 17 maggio 2012

HOW TO SAY...

Hit the nail on the head

Letteralmente significa "colpire il chiodo sulla testa" ma traduce il nostro "azzeccarci" o meglio "dire o fare la cosa giusta", "fare centro"

Bello no...

DE VENERARI ARTES

Botticelli, soprannome del pittore Sandro Filipepi (1445-1510), è l’artista fiorentino che più contribuì alla crescita del Rinascimento, dopo l’eroica stagione di Brunelleschi, Donatello e Masaccio, nei primi decenni del Quattrocento. Tutta la sua attività si è svolta nel capoluogo toscano, all’ombra dei Medici e nel clima neoplatonico che caratterizzò la cultura fiorentina di quegli anni. Firenze è ora una città matura, ricca, consapevole della propria superiorità. L’arte è una affermazione di serena perfezione, e così è anche la pittura di Botticelli, il quale contribuì in maniera determinante anche ad un’altra inversione di tendenza: la pittura diviene ora sempre più di moda rispetto alla scultura che, fino a questo momento, aveva avuto quasi il primato nella produzione artistica figurativa.
Dopo un apprendistato condotto probabilmente presso la bottega di qualche orafo, iniziò l’attività pittorica come aiuto di Filippo Lippi. Da quest’ultimo, così come da Andrea Verrocchio e da Antonio del Pollaiolo, subì notevoli influenze nella sua prima attività, ma da subito il suo stile si rivelò per essere superiore a quello dei suoi maestri. A 25 anni realizzò la sua prima opera importante, «La Fortezza», eseguita nel 1470 su commissione dell’Arte della Mercanzia. Intanto entrava nell’orbita della famiglia Medici, e tramite loro veniva in contatto con la migliore società intellettuale fiorentina di quel tempo, quali il Poliziano, Marsilio Ficino e molti altri.
Nel 1472 realizzò il dittico di «Giuditta e Oloferne», e successivamente una serie di ritratti, tra cui quelli di Giuliano de’ Medici, e il ritratto di giovane con medaglia. Nel 1477 dipinse per la chiesa di Santa Maria Novella l’«Adorazione dei Magi».
Dal 1478 ebbe inizio la serie delle allegorie e dei miti antichi: «La Primavera» del 1478, «Pallade doma il centauro» del 1482, «Venere e Marte» del 1483 e la «Nascita di Venere» del 1484. In questo stesso periodo, 1481-82, venne chiamato a Roma per collaborare agli affreschi della Cappella Sistina. Sono questi gli unici lavori che realizzò lontano da Firenze. In seguito la sua produzione pittorica continuò con costanza, ma senza grandi variazioni, restando sempre ancorata al suo stile fatto di atmosfere di raffinata eleganza e di affascinanti figure. La scelta dei soggetti subì invece una variazione, tornando a prevalere i soggetti religiosi sui temi mitologici, sintomo questo anche di una variazione dei tempi, quando, con la scomparsa di Lorenzo de’ Medici (1492), conobbe una pausa d’arresto quell’umanesimo più antichizzante e laico che aveva caratterizzato la corte del Magnifico.
LA PRIMAVERA

Sandro Botticelli, La Primavera, 1478 ca., Galleria degli Uffizi, Firenze (http://www.uffizi.firenze.it/)
La Primavera di Botticelli è uno dei quadri più misteriosi della storia dell’arte e, grazie alla sua notorietà, è stato anche uno dei più interpretati. Le letture dell’immagine sono molteplici ma possono facilmente ricondursi ad una identica idea di base: l’esaltazione della bellezza quale spinta per mettere in moto l’amore, inteso come rinascita della natura e della vita. Le figure sono state concordemente identificate: partendo da destra vediamo Zefiro, il vento della primavera, che afferra la ninfa Cloris, e che diviene quindi la terza figura: Flora, il cui abito è riccamente decorato da motivi floreali. Al centro del quadro, e un po’ arretrata è Venere, mentre su di lei è Cupido, che scocca le frecce dell’amore. Subito dopo viene il gruppo delle tre Grazie, ed infine, l’ultima figura, Mercurio, nell’atto di disperdere le nuvole con il suo bastone.
Il quadro è unanimemente riconosciuto come uno dei capolavori del Rinascimento italiano, eppure qui, Botticelli, parte da una concezione stilistica che sembra più tardo gotica che realmente rinascimentale. Del primo stile è senz’altro la costruzione spaziale priva di una reale profondità, nella quale le figure si dispongono senza un realistico peso di gravità e senza lasciare alcuna ombra. Ma è tardo gotica anche la grande attenzione al dettaglio naturalistico con il quale il pittore realizza ogni fiorellino e ogni singolo filo d’erba. Una pittura, in sostanza, fatta di tessiture lineari alla maniera degli ultimi pittori miniaturisti. Tutto è realizzato in punta di pennello.
Ma ovviamente rinascimentale è lo spirito del quadro che, per il fatto stesso di aver scelto un soggetto così laico, e imbevuto di riferimenti umanistici, non poteva che nascere in questo periodo storico. Botticelli qui sembra realizzare uno strano mix, scindendo le scelte stilistiche dai contenuti, e dimostrando come in arte le classificazioni non sono mai semplici, ma forma e contenuto di un’opera d’arte possono anche viaggiare su percorsi divergenti.

LA NASCITA DI VENERE


Sandro Botticelli, Nascita di Venere, 1483-85 ca.,Galleria degli Uffizi, Firenze (http://www.uffizi.firenze.it/)
Questo dipinto, benché accostato da sempre alla Primavera,è stato dipinto almeno cinque anni prima.Le analogie tra i due dipinti sono tante, e non solo per la comune scelta di soggetti mitologici.


Anche qui il pittore parla della bellezza, e a simbolo della bellezza viene presa una donna rappresentata nuda. Sarà anche Venere, ma rimane comunque un nudo femminile con una precisa carica di sensualità. Non è certo il primo nudo dell’arte rinascimentale, ma è di certo il primo nudo a proporsi come immagine di seduzione. Siamo agli ultimi anni del governo umanistico di Lorenzo il Magnifico. Dopo la sua scomparsa, il clima culturale nella città di Firenze cambiò totalmente sostituito dal periodo delle predicazioni del Savonarola, il cui intento era una moralizzazione della società fiorentina del tempo. Mentre con il Magnifico Firenze emulava lo splendore dell’Atene classica, con il Savonarola doveva divenire la nuova Gerusalemme. Ciò ci dice sufficientemente come i tempi cambiarono, e un quadro come questo non sarebbe stato più possibile per il Botticelli solo qualche anno dopo. La sua produzione successiva fu sempre di soggetto religioso. Questo quadro fu probabilmente una delle ultime opere a rappresentare la Firenze umanistica di Lorenzo il Magnifico. Da un punto di vista stilistico, la posizione del Botticelli non cambia rispetto alla Primavera. Anche qui, in un’opera che per spirito è sicuramente umanistica, troviamo una scelta stilistica ancora di impronta tardo gotica. Le figure si tengono su tutte senza forza di gravità in uno spazio che solo apparentemente sembra avere più profondità rispetto alla Primavera. Ma comunque sono sempre gli elementi della tessitura lineare a prevalere sulle masse e sui volumi, dimostrando che Botticelli era soprattutto un grandissimo disegnatore, con talento da miniaturista, anche quando si rapportava a tavole di così grandi dimensioni.
In realtà Botticelli è un artista singolare: in fondo era un artista che aveva uno stile più pienamente rinascimentale agli inizi della sua attività. Poi, con il passare degli anni, compie delle scelte stilistiche, di matrice sicuramente tardo gotiche, che non ci sembrano facilmente comprensibili.

Gaia